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ACCADEMIA E REALTA' / Economisti, studiate la storia

di J.Bradford De Long

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11 ottobre 2009

Se chiedeste a uno storico di economia moderna come il sottoscritto perché il mondo si trova attualmente nella morsa di una crisi finanziaria e di una grave flessione economica, vi direbbe che questo è soltanto l'ultimo episodio in ordine di tempo di una lunga sfilza di bolle, crack, crisi e recessioni simili risalenti quanto meno alla bolla dei primi anni Venti dell'Ottocento dovuta alla costruzione di canali, il fallimento nel 1825-1826 di Pole, Thornton & Co, e alla successiva prima recessione industriale in Gran Bretagna. Abbiamo assistito al medesimo fenomeno anche in altri momenti della storia, nel 1870, nel 1890, nel 1929, e nel 2000.

Per qualche motivo, i prezzi degli asset vanno fuori controllo e salgono a livelli insostenibili. Talvolta ciò è da imputare agli scadenti controlli interni alle società che remunerano in maniera spropositata i propri dipendenti per correre dei rischi. Altre volte causa di tutto sono le garanzie governative. Infine, altre volte ancora ogni cosa è semplicemente da ricondurre a una lunga serie di avvenimenti propizi che lascia che il mercato cada in preda a un ottimismo per nulla realistico.
Poi, però, arriva il tracollo, e quando ciò accade crolla di conseguenza anche la ritenzione del rischio: tutti sanno che si verificano immense perdite negli asset finanziari di cui non si è consapevoli, ma nessuno ha la più pallida idea di dove siano. Al crollo fa seguito una vera e propria fuga per la salvezza, seguita a sua volta da una brusca caduta nella velocità della circolazione monetaria, a mano a mano che gli investitori accumulano contanti. E questa caduta nella velocità della circolazione monetaria provoca una recessione.

Non dico che questo è lo schema che seguono tutte le recessioni, perché non è così, ma questo è lo schema di questa recessione e che ci siamo già passati.
Posto però che rivolgeste la medesima domanda a un moderno macroeconomista - per esempio al brillante Narayana Kocherlakota dell'Università del Minnesota - scoprireste che egli non sa rispondervi, e che i modelli macroeconomici imputano le flessioni economiche a cause quanto mai varie. Nella maggior parte dei casi, dice Kocherlakota, esse «dipendono da qualche forma di grossi movimenti trimestrali nei progressi tecnologici. Alcune hanno shock generalizzati. Altri modelli sono caratterizzati da grossi shock trimestrali al tasso di deprezzamento del capitale azionario (al fine di generare un'alta instabilità del prezzo degli asset)...».

Ciò significa che le flessioni o sono l'esito di una grande amnesia delle acquisizioni tecnologiche e manageriali, una sorta di grande periodo di "vacanza" che si crea quando i lavoratori sviluppano all'improvviso un debole per il tempo libero e vogliono concedersi piaceri in eccesso, oppure sono una forma di arrugginimento quando si accelera la velocità con la quale l'ossigeno corrode, riducendone il valore, i grandi oggetti fatti in metallo.

I macroeconomisti moderni, però, aggiungerebbero anche che tutti questi modelli li colpiscono come storie poco plausibili che non devono essere prese sul serio. Anzi, secondo Kocherlakota, nessuno in realtà vi crede: «I macroeconomisti le utilizzano soltanto come comode scorciatoie per generare i necessari livelli di instabilità» nei loro modelli matematici.

Tutto ciò mi induce a formulare due domande. Prima domanda: siamo proprio sicuri che nessuno creda a queste storie? E Prescott dell'università statale dell'Arizona crede davvero che le recessioni su ampia scala siano provocate da episodi che interessano tutta l'economia, nei quali si dimenticano le acquisizioni tecnologiche e manageriali che puntellano la produttività totale dei fattori. Un'eccezione è la Grande depressione, che Prescott dice essere stata provocata da salari reali che eccedevano i valori di equilibrio, dovuti alle straordinarie politiche filo-operaie del presidente Herbert Hoover.

Nello stesso modo, Casey Mulligan dell'Università di Chicago sembra credere davvero che le grosse cadute nel rapporto occupazione-popolazione siano considerabili alla stregua di «grandi vacanze», come una sorta di effetto collaterale di politiche di governo negative quali quelle che vediamo poste in essere oggi, che inducono i lavoratori a lasciare i loro posti di lavoro così da poter ottenere sussidi più alti dal governo per poter rifinanziare i loro mutui (lo so: anch'io la trovo una tesi assurda).

Seconda domanda: a prescindere dal fatto che i macroeconomisti moderni attribuiscano o meno le difficoltà nelle quali siamo impelagati oggi a cause che sono palesemente irrealistiche oppure ammettano semplicemente la loro ignoranza, perché hanno una visione così diversa da quella di noi storici dell'economia?
Il secondo interrogativo è particolarmente preoccupante. Dopo tutto, le teorie economiche dovrebbero reggersi sulla storia dell'economia. La teoria è storia fossilizzata, non può essere molto di più. Uno osserva un caso illuminante, o un aneddoto, o una continuità empirica e dice: «Toh, è interessante. Costruiamoci sopra un modello». Dopo l'iniziale fossilizzazione, la teoria naturalmente si sviluppa secondo i propri imperativi e processi intellettuali, ma il seme della storia è in ogni caso sempre presente. Che ne è stato, adesso, di quel seme?

  CONTINUA ...»

11 ottobre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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