Oggi sono quarant'anni esatti dalla strage di piazza Fontana. Molti famigliari delle vittime sono ormai morti, i sopravvissuti attendono ancora giustizia. Le istituzioni dovrebbero rispettare questo elementare diritto e fare di tutto perché esso possa avere la massima soddisfazione possibile; l'opinione pubblica dovrebbe evitare di alimentare due cortine fumogene, all'apparenza opposte, ma in realtà complementari: la cortina del qualunquismo, per cui sulla strage di piazza Fontana non sapremmo mai nulla, trattandosi dell'ennesimo mistero italiano irrisolto da accettare con fatalistica rassegnazione; quella della dietrologia, in cui i sacerdoti dell'occultismo polverizzano la verità in tante infinite personali ossessioni che finiscono per annullarsi a vicenda.
Bisogna sfuggire a questo doppio ricatto, affermando che sulla strage di piazza Fontana e in generale sulla strategia della tensione in Italia, grazie al meritorio lavoro della magistratura e di un'apposita Commissione parlamentare d'inchiesta, sappiamo quanto basta per incominciare a mettere a fuoco il tema sul piano della ricerca storica.
S'impongono, però, due passaggi preliminari: bisogna tenere ben presente il nesso nazionale/internazionale e avere la piena consapevolezza che si tratta di una svolta decisiva nella storia dell'Italia repubblicana.
La prima certezza riguarda l'evidenza di una matrice neofascista che ha insanguinato l'Italia dal 1969 al 1974, ossia dalla strage di piazza Fontana a quella di Brescia. Un impasto di reducismo mussoliniano e di nuova militanza delusa dalla progressiva e faticosa parlamentarizzazione del Msi; un grumo di ossessioni razziali e anticomuniste disponibili a farsi infiltrare dai servizi italiani e stranieri e a infiltrare i gruppi anarchici in nome del proprio delirio superomista. Dalla fine del fascismo erano trascorsi 25 anni, e non c'erano solo nostalgie e revanscismi, ma anche conti da regolare con un regime democratico sempre subito, mai accettato.
Alla luce di questa consequenzialità di atti stragisti (6 in 5 anni per un totale di 50 morti) l'argomento che a Milano la bomba sia scoppiata per errore è risibile: la manovalanza che ha partecipato logisticamente all'impresa o ha materialmente portato l'ordigno poteva forse non avere la piena consapevolezza dei suoi spaventosi effetti; ma chi ha organizzato il piano era certo di volere alzare all'improvviso e a sorpresa il livello dello scontro, facendo in modo che la colpa ricadesse sugli anarchici.
La seconda certezza è che alcuni esponenti dei servizi segreti italiani hanno deliberatamente depistato le indagini affinché prendesse piede la pista anarchica e si cancellassero le prove della responsabilità neofascista. È inverosimile ritenere che agissero autonomamente, al di fuori cioé di una precisa catena gerarchica, certo selezionatissima, ma di origine politica e governativa che fu presa in contropiede dagli effetti della strage.
La terza certezza riguarda il contesto internazionale di quegli anni. Il nostro paese era un'isola giovane e democratica in un mare mediterraneo e panfascista: in Portogallo con il regime di Salazar, in Spagna con Franco, in Grecia con i colonnelli. Quest'anomalia italiana dispiaceva a quanti in Occidente ritenevano che ai gesticolanti popoli latini, per loro natura calorosi e decadenti, fosse più consona la sferza di un buon governo autoritario; la democrazia era un privilegio spettante ai popoli del nord, freddi, moderni e protestanti.
C'era un evidente interesse geopolitico, nell'ambito degli equilibri e delle logiche della guerra fredda definiti a Yalta, a tenere l'Italia destabilizzata e sotto schiaffo: prima con il terrorismo nero (dal 1969 al 1974) e poi, come un orologio svizzero, con il terrorismo rosso (dal 1976 al 1982). Sia detto con semplicità e a prezzo di qualche schematismo: per quanto riguarda i nessi e i rapporti internazionali, lo stragismo nero sta al blocco occidentale, come il terrorismo rosso sta a quello orientale. Incentivi, protezioni, garanzie, rifornimenti, lasciapassare, senza però mai perdere di vista che si è trattato di un fenomeno soprattutto endogeno, una maledetta e crudele storia italiana perché ogni popolo al fondo è padrone del suo destino.
L'ultima certezza ha le sembianze del lieto fine: la democrazia italiana, nonostante tutto, ha vinto grazie all'impegno, fra gli altri, di dirigenti politici come Aldo Moro, Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa che hanno combattuto coraggiose battaglie dentro i loro rispettivi partiti, per contenere fermenti sovversivi e autoritari che vi erano presenti. Ma questo risultato non si sarebbe raggiunto senza la vigilanza democratica e la mobilitazione dei grandi partiti popolari e di massa. Si tratta di una lezione politica e civile da non disperdere quarant'anni dopo, che non rimargina la ferita senza giustizia, ma è il modo migliore per onorare la memoria di quelle vittime innocenti.