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Per le regole sui bonus una lezione da Goldman

di Luigi Zingales

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12 dicembre 2009

Bisogna ammetterlo: Goldman Sachs ci sa fare. Non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello politico. Avendo fiutato il vento populista, Goldman Sachs si è seriamente impegnata in una campagna per migliorare la propria immagine pubblica, che non è delle migliori (sulla rivista Rolling Stones era rappresentata come un vampiro). Ha cominciato la campagna in luglio, quando ha accettato di ricomprarsi al prezzo richiesto i warrant che il Tesoro americano aveva acquisito grazie agli aiuti offerti. Mentre gli altri beneficiari si erano messi a negoziare al ribasso, Goldman ha pagato senza fiatare. Poi a novembre ha annunciato la creazione di un fondo di 500 milioni di dollari per finanziare le piccole imprese, che soffrono particolarmente questa crisi. E ora ha annunciato che quest'anno non pagherà il bonus ai top 30 dirigenti. O meglio non lo pagherà in contanti, ma in azioni vincolate per i prossimi cinque anni.
Così facendo, Goldman ha anche reso più difficile per il governo inglese procedere con la windfall tax dei bonus. Come potrà il fisco richiedere il 50% di una somma che per cinque anni non rientra nelle disponibilità del contribuente? Da un lato sembra una pura manovra propagandistica. Goldman forzava già i propri dipendenti a reinvestire una quota significativa dei bonus in azioni della società. Quindi non si tratta di una rivoluzione copernicana. Dall'altro, però, è un utile segnale alle molte autorità regolatorie che si stanno arrogando il diritto di intervenire sui compensi.
Il vero problema non è quanto i manager vengono pagati, ma quanto sia facile per loro incassare la propria retribuzione, sottraendo risorse all'impresa, anche a fronte di un forte deterioramento delle condizioni finanziarie della loro società. All'inizio del 2008, quando la società era già nel mezzo del disastro finanziario, Lehman ha pagato 5,7 miliardi di dollari di bonus. Questa cifra è pari all'ammontare di capitale che Lehman stava cercando di ottenere dalla Korean Development Bank.
A fine 2007 un dirigente di Lehman propose di rinunciare ai bonus, ma fu ridicolizzato dagli altri manager. Questo non stupisce: ai dipendenti di un'istituzione fortemente indebitata conviene prendere i soldi il prima possibile. Sfortunatamente, nemmeno gli azionisti hanno un grosso incentivo a fermarli: il costo maggiore ricade sui creditori. I creditori, dal canto loro, hanno pochi incentivi a richiedere un limite alla componente dei bonus pagata in cash se si aspettano un salvataggio del governo, come nel caso di Aig.
Se è difficile trovare giustificazioni economiche (di politiche ce ne sono molte) per un intervento dello stato sul livello di retribuzioni dei manager finanziari, è facile spiegare perché lo stato debba imporre dei limiti a quanto velocemente i manager possono incassare i propri bonus. Goldman ha semplicemente giocato d'anticipo, sperando che la sua decisione spontanea plachi la sete di intervento dei vari regolatori. Ma sarebbe un errore. La regola seguita da Goldman quest'anno dovrebbe valere sempre, per tutte le grosse imprese finanziarie, e non solo per i 30 top manager.
La trasformazione di una parte significativa dei bonus in azioni vincolate si dovrebbe applicare sempre, ma specialmente quando una società non versa in buone condizioni finanziarie. Il problema, naturalmente, è come determinare queste condizioni, dato che i valori di bilancio possono essere manipolati e spesso riflettono più il passato che il futuro. Per le grosse società, però, abbiamo un indicatore molto accurato del rischio di insolvenza: il famigerato credit default swap, il costo di assicurarsi contro il rischio di insolvenza. La regola giusta sarebbe che quando il credit default swap è elevato (indice di un'alta probabilità di insolvenza), tutte le remunerazioni al di sopra di una certa soglia (diciamo 500mila dollari) debbano essere investite in azioni vincolate per almeno tre anni.
Questa norma, coerente con le guidelines indicate dal Financial Stability Board, contribuirebbe a rendere più stabili le società finanziarie in due modi: legando il management alle sorti dell'impresa e motivandolo ad emettere azioni quando necessario. Durante la crisi gli amministratori delegati delle maggiori banche americane sostenevano che fosse impossibile emettere azioni. Questa «impossibilità» tuttavia scomparì quando il piano Tarp impose limitazioni sulle retribuzioni ai suoi beneficiari: pur di sfuggire alle restrizioni i manager trovarono improvvisamente facile emettere azioni.
Una norma così fatta non soddisferebbe la sete di vendetta dell'opinione pubblica ma, diversamente da tutte le proposte finora avanzate, avrebbe aiutato Lehman a evitare il collasso e contribuirebbe a impedire una nuova crisi finanziaria nel futuro. Anche i regolatori hanno da imparare da Goldman.

12 dicembre 2009
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