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Benvenuti nel paese dove i processi non finiscono mai

di Roberto Perotti

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Magari le decisioni di ieri sul processo breve potrebbero avvicinare di un poco le posizioni del ministro Alfano, che prevedeva solo l'uno per cento in più di prescrizioni con il "vecchio" processo breve, e quelle dell'Associazione nazionale magistrati, che prevedeva oltre il 40 per cento in più. Difficilmente però le grandi differenze di fondo saranno eliminate. Questa sconcertante diversità di opinioni su dei fatti facilmente accertabili illustra perché il dibattito attuale faticherà a trovare una soluzione duratura: il mutuo sospetto di motivazioni politiche o personali prevale sui ragionamenti fattuali.
E c'è un motivo di pessimismo ancora più profondo. Le proposte di riforma della giustizia sono note, dibattute con accanimento da decenni. A un outsider come me, molte suonano tuttavia implausibili. Cominciamo dalla prima e più diffusa: aumentare le risorse. Come mostrano i confronti internazionali, in media la giustizia italiana non è sottofinanziata, ma spende una percentuale molto maggiore in stipendi ai magistrati, soprattutto a causa di una progressione per anzianità molto più accentuata che altrove (vedi Daniela Marchesi su lavoce.info). Come nell'università, anche in tribunale si premiano i compleanni, non l'efficienza.
La conseguenza è inevitabile: basta leggere i tanti libri-confessione di magistrati italiani per capire che molto spesso l'organizzazione degli uffici è un disastro. Il rapporto tra i procedimenti penali prescritti e quelli definiti per giudizio ordinario o patteggiamento (un indice, seppure crudo, dell'efficienza di un tribunale) varia da quasi zero in alcuni tribunali a valori incredibili come l'80 per cento o addirittura superiori al 100 per cento in altri tribunali.
Una seconda proposta - molto diffusa - è eliminare l'obbligatorietà dell'azione penale. Con oltre tre milioni e trecentomila cause penali pendenti, l'azione penale è già però di fatto discrezionale, perché i magistrati devono scegliere i processi da portare avanti. E potremmo continuare a lungo con tante proposte, dibattute da decenni, di scarsa incidenza sui tempi della giustizia.
Vi sono però due cause profonde e nascoste della lentezza della giustizia italiana. Finiamo per parlarne poco, per motivi culturali, ma sono cruciali per trovare una soluzione duratura al dilemma. La prima è la garanzia di fatto dei tre (o forse si dovrebbe dire quattro) gradi di giudizio. In Italia vi sono molti meno filtri all'impugnazione, sia per l'appello sia per il ricorso in Cassazione, che negli altri ordinamenti.

Per esempio, da noi la Corte di Cassazione è stata recentemente investita di un ricorso sul costo di un documento cartaceo di trasporto pubblico dell'importo di 0,03 euro (è vero che la Cassazione ha introdotto di recente un filtro più severo, ma la sua efficacia è da verificare).
La cultura giuridica italiana è legata all'idea che più alto è il numero di ricorsi possibili, più bassa è la probabilità di condannare un innocente. Quasi tutti possono ricorrere quasi sempre, e questa garanzia viene così in gran parte meno: la probabilità di condannare un innocente è la stessa in secondo che in primo grado. Una garanzia in qualche modo ponderata con l'esigenza di evitare l'impunità: il miglior modo per evitare di condannare un innocente è di non condannare nessuno, ma questo paradosso non può essere certo la soluzione.
L'effetto di una riduzione dell'appellabilità sui tempi della giustizia è quindi enorme. Supponiamo, a solo titolo di esempio, che vi siano due gradi di giudizio, che tutti i procedimenti vengano appellati, e che ogni grado di giudizio richieda quattro anni per arrivare a una sentenza: in media dunque sono necessari otto anni per la sentenza definitiva. Se si eliminasse l'appello, viene naturale pensare che i tempi di attesa per una sentenza definitiva si dimezzino. In realtà, ora vi è il doppio di magistrati che lavorano sui processi di primo grado: dopo qualche tempo, i tempi per una sentenza definitiva scendono a meno di un anno, contro gli otto anni della situazione di partenza. Questo esempio, seppur estremo, dà un'idea dei vantaggi della riduzione dell'appellabilità delle sentenze.
La seconda causa nascosta della lentezza della giustizia ha conseguenze più difficili da quantificare, ma rilevanti, e concerne la formazione delle prove nel processo penale. In Italia «la prova si forma in giudizio», nei paesi di "common law" durante l'indagine e il processo serve per dibattere le prove acquisite. In quei paesi i processi si svolgono con udienze continuate, o con rinvii limitati, anche per l'uso molto più frequente di giurie popolari. Da noi ogni nuova udienza significa un rinvio di mesi, con la conseguenza che magistrati e avvocati devono riprendere in mano il processo parecchie volte e a distanza di tempo. In realtà anche in Italia parte delle prove si formano spesso nella fase istruttoria, con ulteriori complicazioni.
Tutto questo solleva dubbi anche sulla qualità delle decisioni, per l'inevitabile frammentazione del processo decisionale. Mi rendo conto che vi sono centinaia di anni di pensiero giuridico dietro queste differenze, e che, come ha più volte ribadito la Corte costituzionale, il processo accusatorio ha una diversa funzione in Italia e nei paesi anglosassoni: l'accertamento della verità nella prima, la risoluzione di una controversia fra le parti nei secondi.
  CONTINUA ...»

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