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Un ceto politico senza classe

di Carlo Carboni

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12 Marzo 2010

Perché il ceto politico non è una classe dirigente? La risposta di buon senso dovrebbe essere: il ceto politico fa orecchie da mercante ai problemi del paese. A quelli più urgenti dell'oggi, ma anche quelli che ci trasciniamo da decenni, ormai. Questa la risposta del buonsenso, che non si deprime per l'eclissi delle ideologie. Come quella che ritiene che il ceto politico non sia una classe dirigente, ma un'élite perché non favorisce una gestione pubblica partecipata. Sappiamo ormai da anni che quel termine "partecipata" è uno specchietto per le allodole, essendoci problemi di rappresentanza degli interessi ben più grandi.
La partecipazione non era il tema vero neppure ai tempi della Bologna di Zangheri. Il tema positivo era, semmai, poter disporre d'istituzioni attente allo sviluppo locale e di una classe politica, come la intendeva Guido Dorso, in grado di amministrarle con senso comune e condiviso dai cittadini, perciò con servizi sociali locali efficienti, ospedali, scuole, giustizia, sicurezza efficienti: in sintesi, una classe politica interprete di una piattaforma culturale condivisa e, soprattutto, praticata.
Il problema italiano - le eccezioni storiche poche - non è di deficit partecipativo, ma di performance dell'azione delle istituzioni, di competenza della classe politica. Avremmo bisogno di una classe politica e invece abbiamo un ceto politico, come ebbe a sostenere il ministro Tremonti. Il tema di offrire governi di amministrazione di performance è talmente lontano dal dibattito del day by day politico, da non meritare attenzione nel marasma antipolitico-istituzionale. Eppure poterne discutere aiuterebbe questa già complicata "primavera politica". Il clima d'insorgente faziosità da stadio di questa campagna elettorale, in realtà, assegna poche speranze alla prospettiva che, nel post-elezioni, possa stabilirsi un approccio bipartisan sulle grandi questione del paese.
Fanno bene quindi quegli opinionisti come Folli e quei leader d'importanti gruppi d'interesse del paese a ricordare che durante la campagna elettorale è opportuno parlare di programmi. Anche perché, dopo queste elezioni regionali, non possiamo permetterci di cominciare da capo a discutere di cosa fare. Il "che fare" dovrebbe essere, oggi, al centro dei pensieri della politica perché, al di là delle appartenenze, è di questo che i cittadini chiedono che venga discusso in questi giorni dal ceto politico di governo e d'opposizione. L'ampiezza del debito pubblico dovrebbe richiamare alla riflessione su come il paese intende affrontare questa graduale uscita dal tunnel della crisi economica internazionale, piuttosto che azzuffarci sui comportamenti antipolitici della politica. È questo il momento elettorale in cui bisogna parlare dei problemi del paese e delle sue regioni.
Se Adam Smith fosse il medico del malato Italia, diagnosticherebbe un mal di sviluppo, dovuto a deficit di concorrenza nel sistema economico e, soprattutto, a una gestione amministrativa statale scarsa in efficienza e specificherebbe: giustizia, difesa-sicurezza e opere pubbliche. Queste le principali funzioni che uno stato, secondo Adam Smith, dovrebbe assolvere in modo efficiente per dare un contributo allo sviluppo di una nazione. Naturalmente, sotto la terza funzione statale dovremmo comprendere non solo grandi infrastrutture di comunicazione, ma anche istruzione, sanità, servizi sociali, ambiente, eccetera. Scarsa concorrenzialità, scarsa efficienza delle istituzioni sono purtroppo problemi strutturali di lungo periodo del paese. Normalmente vengono attribuiti a una debole egemonia della cultura di mercato, accompagnata, tuttavia, anche da insufficiente senso dello stato.
Questi deficit di concorrenzialità e di shortage d'efficienza delle istituzioni pubbliche costituiscono i principali problemi storici del paese, che da lungo periodo è governato da ceti politici immersi in tessuti di clientelari corporativi e territoriali. Queste clientele creano vincoli costosi per il mercato e un più costoso mercato politico. Si tratta di sopravvivenze del pan-politicismo che ci ha governato dal dopoguerra? O è il frutto del nuovo ceto politico professionalizzato che è andato strutturandosi in un ceto che oggi vanta poco meno di 250mila tra cariche elettive e di nomina? Non occorre aggiungere calcoli meno probabili sui "cortigiani", portaborse, consulenti, uffici, eccetera. C'è semmai da tener in conto che esiste anche l'aggravante "costi-sprechi" della politica. Tuttavia, il discorso principale resta che questo ceto politico, che i taxpayers finanziano, non rilascia un governo della cosa pubblica efficiente.
Le ricerche svolte mostrano che, ad esempio, i ceti politici di governi regionali e locali - sempre più potenti - non s'impegnano in progetti integrati e più complessi, di lungo periodo. Di questo soffre il paese e soffre il ceto politico stesso: infatti la classe dirigente politica ha un profilo carismatico che non si apprende in college esclusivi, ma si forgia nella guida di grandi progetti sui beni comuni del paese.
c.carboni@univpm.it

12 Marzo 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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