Il braccio di ferro sui fondi per la Sicilia ha avuto almeno un merito: si torna a parlare del Mezzogiorno. Ma i meriti si fermano qui, perché la discussione è ancora di scarsa qualità (un po' come la spesa pubblica, verrebbe da dire).
Partiamo da un dato. Le politiche per lo sviluppo territoriale sono solo una parte delle politiche pubbliche, e neppure la più grande. Nel Sud si tratta di meno di 10 miliardi all'anno su una spesa pubblica complessiva di circa 200 miliardi. Ci si potrebbe lamentare dell'insufficienza degli interventi di riequilibrio messi in campo in Italia, al confronto con Germania o Spagna. Ma non è questo il punto più importante, piuttosto il fatto che le condizioni socio-economiche del Sud dipendano non solo dalle politiche "aggiuntive" ma anche, e molto, dal buon funzionamento di quelle "ordinarie".
Dentro i 200 miliardi ci stanno la sicurezza, la giustizia, l'istruzione, la ricerca, la sanità, l'assistenza, i servizi di prossimità, i servizi pubblici locali, e tanto altro, con azioni ed entità che fanno capo sia allo stato centrale che alle regioni e agli enti locali. È soltanto incidendo su questo più ampio perimetro che, alla lunga, si migliorano le condizioni del Sud, e non concentrando spasmodicamente l'attenzione sui soli fondi "aggiuntivi". I quali possono essere "tanti" o "pochi", ma non funzionano - diventano appannaggio della "coalizione della rendita", come dice bene Ivan Lo Bello sul Sole 24 Ore del 6 agosto - se non riescono a intrecciarsi con le politiche ordinarie e a diventare la sponda per una presenza moderna ed efficiente dello stato, in tutte le sue articolazioni. È questo il vero insegnamento storico della crisi del vecchio intervento straordinario nel Mezzogiorno, una volta esaurita la fase eroica delle infrastrutture di base negli anni 50 e 60.
Fin dalla "nuova programmazione" di Ciampi e poi con la creazione del Fas, era chiaro che le politiche di sviluppo territoriale dovessero avere due linee d'azione: una di livello regionale e una di livello nazionale. Ad esempio il ministero dell'Istruzione ha gestito e gestisce risorse per il sistema dell'istruzione, il ministero dell'Interno per il sistema della sicurezza, e via continuando con il ministero delle Infrastrutture e trasporti e quindi Ferrovie dello Stato, Anas, eccetera. Coordina il tutto il Dipartimento per le politiche di sviluppo, in origine presso il ministero dell'Economia e poi spostato al ministero dello Sviluppo economico. Tutti questi programmi sono monitorati e valutati, se ne conoscono in dettaglio le realizzazioni, grazie a un imponente lavoro tecnico che permette fra l'altro di distribuire una parte dei fondi a vantaggio delle amministrazioni più virtuose nel raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Ora, è sulle azioni di livello nazionale che si scaricano i tagli apportati al Fas negli ultimi 14 mesi. Quelli regionali, infatti, non si sono finora toccati per non pregiudicare l'effetto moltiplicatore dei finanziamenti comunitari. C'è una contraddizione fra la volontà di rilanciare le politiche per il Sud, dichiarata dal ministro dell'Economia, e il fatto di ridurre al lumicino le risorse dedicate proprio alle azioni di rango nazionale. Nella comunicazione quotidiana si sbandierano le cifre dei programmi regionali, ma prima o poi il governo dovrà decidere cosa fare di tutto il resto, se vorrà rispondere con credibilità all'accusa di voler smantellare, piuttosto che rafforzare, le politiche per il Sud.
Per ciò che riguarda la qualità degli interventi, regioni ed enti locali hanno tante responsabilità, ma i ministeri romani non c'entrano nulla? E i concessionari di pubblico servizio, quasi sempre imprese statali, che prendono risorse che dovrebbero essere aggiuntive e poi lesinano negli ordinari piani di investimento, mostrano attenzione alle aree svantaggiate del paese? Perché il ministro per lo Sviluppo economico non convoca i soggetti centrali e non utilizza i poteri che ha? Ad esempio, per fare una ricognizione delle opere di livello nazionale (nel trasporto ferroviario e stradale, nelle reti energetiche e di comunicazione, nei beni culturali) immediatamente cantierabili, ovvero per verificare il possibile ampliamento degli interventi sui sistemi dell'istruzione di base e della sicurezza?
Ben venga un maggiore coordinamento fra le regioni, ma all'interno dello stato c'è davvero bisogno di una nuova agenzia per coordinare? E siamo proprio sicuri che i tanti sindaci del Sud che usano i fondi "aggiuntivi" per scuole, asili nido, manutenzione dei centri storici, azioni di sostegno allo sviluppo locale stiano "disperdendo a pioggia"? Non è forse vero che i beni pubblici locali sono importanti per lo sviluppo quanto, e talvolta anche più, delle grandi opere? Le regioni, in fondo, non hanno tutti i torti a preoccuparsi: in futuro, per ripristinare alcuni interventi nazionali, i fondi destinati alle azioni di rango locale potrebbero essere messi in discussione.