In Italia più che altrove, forse per la nostra familiarità con pulpiti e prediche, quello dell'editorialista è un mestiere scivoloso. Si corre spesso il rischio di prendersi troppo sul serio salendo su quelle due colonne e illudendosi di poter indicare all'Italia e al mondo la via da percorrere. Edmondo Berselli sapeva invece confortare il lettore, con una scrittura priva di quel "duro monito" che nell'editorialismo italiano è il perno classico dell'argomentazione. Non perché non prendesse sul serio quanto scriveva, ma perché lo faceva ricorrendo a un metodo che mescolava (con le sue parole) «il Sopra e il Sotto, l'Alto e il Basso, il Cotto e il Crudo» senza mai perdersi nella rappresentazione effimera della politica, dello sport o dello spettacolo. Perché in Italia nell'effimero si affoga e ci si nasconde, mentre Berselli non si è mai sottratto alle sue passioni politiche e culturali. Ricorrendo spesso, nei suoi momenti migliori, a quella cattiveria che i cultori dell'effimero non conoscono né sanno maneggiare.
Quel metodo era nato con il suo primo vero libro, Il più mancino dei tiri, arrivato nel 1995 dopo alcuni anni di scrittura sui quotidiani. Un libro poi celeberrimo, dove il calcio era solo un espediente per raccontare la fine da poco consumata dei partiti della prima repubblica e nel quale Berselli enunciava così il proprio programma: «Con un sentimento piuttosto romantico confido in una storia in cui tutto è sincronico. Considero contemporanei Mammolo e Pisolo come John Lennon e Woody Allen, il Grande Blek e Giuliano Amato, Felice Gimondi e Romano Prodi».
Una coincidenza sfortunata ha voluto che proprio nel giorno della scomparsa di Berselli il ministro Sacconi se ne sia uscito con un attacco al «nichilismo delle generazioni degli anni 70 che sono entrate nei mestieri dell'educazione, della magistratura e dell'editoria... per infrattarsi. Perché è sempre meglio che lavorare». Non so quale editoria (né quale educazione o magistratura) abbia in mente Sacconi, ma so che proprio la cucina editoriale aveva portato al giovane Berselli tutto il contrario del nichilismo.
Tra i suoi molti libri, uno era quello che teneva in maggior cura. Lo dichiarava ogni volta con la medesima formula, nei risvolti di copertina che redigeva certamente di propria mano: «Il suo libro più importante è Post-italiani. Cronache di un paese provvisorio. Un libro fondamentale perché impietoso, quasi feroce nel ritrarre le ideologie e i protagonisti di una transizione italiana che già allora ci appariva infinita e sfinente».
Vi troviamo una galleria d'interpretazioni che ancora oggi non hanno perso un grammo di verità. Gianfranco Fini con «la sua mitologia, come il suo stile, in perpetua metamorfosi». I postcomunisti con il loro «volatile sincretismo progressista», «presi alla sprovvista dalle mutazioni sociali intervenute nel paese... e illusi che bastasse lasciar trapelare un filantropismo di fondo, una tonalità socialista leggermente commossa con un retrogusto dolceamaro di lacrime». I miti del progressismo light, come Nanni Moretti o Roberto Benigni, su cui si abbatteva senza remore. «Il solo pensiero di una scuola cinematografica morettiana, con epigoni e seguaci, mette una certa inquietudine. Ci mancherebbe pure la Sacher-Tendenz», mentre La vita è bella vi appariva per quello che era: «Poche le voci a sinistra che si levino a dire: ma signori, questo film è una stronzata».
Negli anni successivi al 2003, che dopo la collaborazione con il Sole 24 Ore lo videro firmare per Repubblica e l'Espresso, la cattiveria di Berselli si sarebbe stemperata in una rappresentazione quasi passionale dei tormenti del centro-sinistra. Come nel sottotitolo al suo Sinistrati, cioè Storia sentimentale di una catastrofe politica, l'ultimo suo libro politico venuto subito dopo il voto del 2008, nel quale gli eterni perdenti di questo ventennio sono trattati con la benevolenza di un progressista che non aveva mai rinunciato all'intelligenza dell'ottimismo.