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I ballottaggi dicono che il Pd deve ritrovare iniziativa. Sulle riforme

di Stefano Folli

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13 aprile 2010

Il ballottaggio nei comuni ha confermato che nel Nord il centrodestra ha in mano il bandolo della matassa, mentre il Partito democratico deve registrare un'altra sconfitta. Soprattutto il risultato di Mantova è emblematico. Si può dire che rompa una tradizione, visto che la storia dei ballottaggi ha sempre premiato al secondo turno il centrosinistra a scapito della destra. Ciò spiega la tenace avversione di Berlusconi al famoso modello elettorale «francese», a doppio turno. Il premier è convinto che gli elettori cosiddetti «moderati» tendono a distrarsi, se chiamati una seconda volta alle urne nel giro di due settimane.

Eppure proprio i dati di ieri sera sembrerebbero dire il contrario. Forse, nonostante la forte incidenza dell'astensionismo, è cambiato qualcosa nello stato d'animo o nel costume dell'elettorato: almeno in certe aree del centro-nord. Se è così, si tratta di un segnale da non sottovalutare. Prima di tutto perchè ribadisce la tendenza del voto regionale, stavolta su di un terreno poco favorevole al centrodestra. E poi perchè offre al Pd di Bersani un'altra buona ragione per riflettere su se stesso e il proprio futuro.

Si poteva immaginare infatti che a Mantova, città propizia, il ballottaggio avrebbe mobilitato l'elettorato del centrosinistra in cerca di rivincita. Ma così non è stato e l'occasione è andata persa. Come dire che il rapporto fra il Pd e la società settentrionale resta un problema irrisolto anche laddove le condizioni sono più incoraggianti. Se l'astensionismo colpisce a destra, esso apre voragini anche a sinistra. E a nulla valgono gli slogan e le parole d'ordine, in verità un po' stanche e burocratiche, che arrivano dal centro.

Proprio il dato di Mantova - che non è compensato dai successi a Macerata e a Matera - sembrerebbe dar ragione a quanti incitano il Pd a inaugurare una nuova stagione. Non è un caso se persino Romano Prodi ha scelto questo momento per tornare in campo, arrivando a condividere le posizioni di un Chiamparino o di un Cacciari a favore del «partito del Nord»: come dire una formazione politica ricostruita su basi federaliste, in cui i dirigenti locali pesano come mai in passato.

Ora si discuterà sulla credibilità di Prodi o sull'opportunità della sua uscita, che certo tradisce delusione e malanimo nei confronti degli attuali dirigenti del Pd (tutti, da Bersani a Veltroni). Il punto tuttavia è che il centrosinistra ha urgente bisogno di ritrovare il filo di un'iniziativa. La quale oggi può svilupparsi realisticamente solo intorno ai progetti di riforma, tema ancora quasi tutto interno alla maggioranza. Non sembra però che il Pd, su questo terreno, voglia uscire dalla linea difensiva, timida e di basso profilo, da cui si sente protetto.

Con ogni evidenza Bersani attende di vedere cosa accadrà nel centrodestra. La speranza è di riuscire a caricare sulle spalle di Berlusconi il fallimento di qualsiasi slancio riformatore. E in effetti l'impressione è di essere già finiti in una sorta di «cul de sac», mentre la discussione si è fatta esoterica, perfetta riproduzione di altri dibattiti altrettanto sterili che si sono svolti negli anni scorsi. Tuttavia il Pd corre parecchi rischi nel restare alla finestra, in attesa che Berlusconi si chiarisca con Fini o con Bossi. La maggioranza ha comunque gli strumenti per restare al centro della scena; e i risultati dei ballottaggi le danno ragione. Mentre l'opposizione non ricava vantaggi dal giocare sempre di rimessa.

13 aprile 2010
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