Non c'è nulla di più falso del detto «La matematica non è un'opinione» e chi ancora credesse a quell'antica massima da ginnasio può ripassare la disputa sul calcolo infinitesimale. Nella seconda metà del XVII secolo Newton e Leibniz non solo litigarono sulla paternità del calcolo (Newton vinse il copyright) ma diedero agli stessi numeri opposte interpretazioni. Di rigido rigore teorico Leibniz, con il suo «Nova methodus pro maximis et minimis» del 1684, certo che invece il calcolo fosse chiave della Natura Newton, con il saggio «Philosophiae naturalis principia mathematica» del 1687.
Insomma sui numeri si litiga e si discute quanto si litiga e si discute sulle parole. Alla fine però teorie e realtà si riconciliano nell'esperienza e – come dimostra il matematico Steven Strogatz che si diverte a insegnare il calcolo infinitesimale sul New York Times online – integrali e derivate costruiscono edifici, fan volare aeroplani, creano e distruggono fortune a Wall Street, stimano le chance che un pallone, calciato dal centravanti, vada o no in porta.
Il dibattito in corso sulla salute economica del nostro paese conferma quanto sia giusto battagliare su cifre e dati, quanto sia utile criticare teorie differenti pur costruite su analoghe evidenze, ma come alla fine sia la nostra rotta intellettuale e morale a decidere «Che cosa significano i numeri?».
Sul Corriere della Sera di domenica, in un interessante articolo, Giuseppe Sarcina si chiedeva giusto «Chi ha ragione sui numeri?», confrontando le tesi già note ai lettori del Sole 24 Ore di studiosi come Luca Paolazzi, Guido Tabellini, Giorgio Barba Navaretti e Marco Fortis. Siamo o no in declino? La nostra industria quanto soffre rispetto ai paesi concorrenti? Finiremo come la Grecia o non vediamo piuttosto già sfumare l'effimero sorpasso spagnolo e sentiamo il decano del Financial Times Martin Wolf guardare con invidia alla nostra manifattura? Ha ragione chi sottolinea il ritardo, Pil italiano cresciuto meno rispetto alla media europea e produttività grippata o chi guarda al nostro scarso indebitamento familiare, sforzo nell'export e ai mali dei paesi concorrenti?
È vero che siamo nei giorni di volata del campionato di calcio ma ci asterremo dall'appassionarci al derby delle cifre. Dal dibattito che si è sviluppato su queste colonne, e ha poi trovato eco e sostanza nel Convegno di Confindustria a Parma, emerge consenso su un'Italia che era povera ed è diventata ricca, in un mondo che era povero e sta diventando più ricco, ma dove nessuno ha più assicurato lo status quo. Nessuno: né i poveri, né i ricchi.
Le sei proposte che la presidente Emma Marcegaglia - con piglio e passione - ha presentato davanti al premier Berlusconi seduto a un passo, sono chiare: meno burocrazia; infrastrutture e non sogni; soldi veri per ricerca e innovazione; fisco meno killer per chi produce ricchezza; federalismo fiscale senza slogan; piano energetico e nucleare di nuova generazione.
In quanto ha ragione chi ritiene che il paese accusi un forte ritardo rispetto ai rivali europei e ai nuovi poteri di Asia e America Latina sono sei motivi per ripartire. In quanto ha ragione invece chi ritiene che l'Italia, e il suo mondo del lavoro, della produzione, delle imprese e della ricerca - con le famiglie welfare e prima banca di mutuo soccorso - abbiano saputo risparmiare, produrre ed esportare sono sei ragioni per rilanciare. Il rigore del ministro Tremonti nel 2009 è stato elogiato da Trichet, Barroso e perfino da Massimo D'Alema con Fabrizio Forquet. Ora però l'autore di «La paura e la speranza» deve mettere tra i binari di rigore e rilancio dell'economia le traversine concrete di progetti e investimenti. O la ripresa non partirà, neppure nel 2011.
L'interpretazione dei dati deve far discutere e ragionare in libertà. Ma siate d'accordo con Leibniz o con Newton sul calcolo, poi vi tocca usare i numeri per costruire e produrre. È quello che l'Italia deve fare e su questo giornale lo studio e il dibattito andranno avanti, senza nessun corsetto ideologico.
Perché la crisi non è finita, le sue conseguenze sono imprevedibili, vedi ko greco e risveglio Usa, e perché il mondo globale uccide un cliché al giorno. Ragioniamo meravigliati sulla Cina passata da sognare una ciotola di riso a controllare il debito di Washington, e già quel colosso muta. Nel 2050 - complice la dissennata politica demografica di Pechino e la forza dell'emigrazione Usa - la popolazione in età lavorativa cinese sarà minore di quella americana. La vera sfida della Cina è «diventare ricchi prima di diventare vecchi».
L'Italia allora potrebbe avere un pensionato per ogni lavoratore (emigranti inclusi). E non sarà una cifra qua o là a salvare i nostri nipoti. I nostri padri e nonni uscirono dal disastro della guerra con sacrifici, lavoro, consenso, fantasia, coraggio e allegria pur tra le macerie. Non esiste un «diritto» italiano al benessere, ma c'è nella cultura italiana una virtù capace di cambiare nel mondo che cambia. È il momento di invocarla: nello stato, nelle fabbriche, nei laboratori, nelle università.
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