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Tra lo stato e i contribuenti il patto non c'è più

di Guido Gentili

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13 aprile 2010

«Non sarà platonica ma ad alta sensibilità politica», ha detto il ministro dell'Economia Giulio Tremonti parlando della riforma fiscale. Niente di più atteso da cittadini e imprese, tartassati oltremisura e vessati da una burocrazia invasiva (ma qui occorrerà fare dei distinguo), che hanno appena riaffidato al governo Berlusconi il compito di mandare in porto la riforma.

La prospettata "alta intensità politica" si lega alla rivoluzione federalista in cammino verso un sistema responsabile, trasparente e semplificato che dovrà portare (così sta scritto nella legge delega approvata in Parlamento) alla riduzione della pressione fiscale, oggi intorno al 43 per cento. Ma non solo. La ricognizione del Sole 24 Ore sui dieci anni dello statuto del contribuente dimostra che la strada verso la piena acquisizione della certezza del diritto è ancora in salita. E a proposito di riforme invocate, una "costituzionalizzazione" dello statuto parrebbe un passo più che logico, atteso che il direttore dei servizi ai contribuenti dell'agenzia delle Entrate, Antonio Polito, definisce lo statuto «più che un insieme di norme cogenti applicabili contro l'amministrazione, un humus culturale entro cui agire, con più o meno sensibilità a seconda dei casi». Decisamente, molto poco, e quel poco molto a discrezione.

Il punto è, al di là dei singoli progetti per concretizzare la riforma, che si dovrebbe riscrivere alla sua base il "patto" tra i contribuenti e lo stato. Perché, così come l'abbiamo conosciuto ormai da decenni, l'attuale "patto", che finora ha funzionato da (occulta e non dichiarata) valvola di sicurezza sociale a dispetto delle sue storture, è destinato a non reggersi più. Sappiamo cosa è stato: un tratto dell'identità italiana. Il "patto" sociale non scritto in base al quale la politica garantiva (a partire da sé) privilegi corporativi e interclassisti. La grande industria era statalista e tutt'altro che orientata al libero mercato. Le piccole imprese industriali e artigiane non erano soggetti politici forti e si difendevano, assieme al lavoro autonomo, a colpi di elusione ed evasione fiscale, complice una pubblica amministrazione (inamovibile, come il resto del settore pubblico, e specchio di un mercato del lavoro ingessato anche sindacalmente) che chiudeva un occhio o due.
Tutto ciò ha portato all'enormità del nostro debito pubblico e a servizi molto scadenti. E al fatto, apparentemente incredibile, che metà degli italiani dichiarano al fisco meno di 15mila euro all'anno, i due terzi non superano i 20mila e i contribuenti sopra i 100mila euro sono meno dell'1 per cento. Lo stesso lavoro nero ha funzionato come ammortizzatore sociale improprio.

Questo non è più possibile. Perché il debito va ridotto, perché è finita la stagione dei sussidi statali ed è iniziata quella federalista, perché le piccole e medie imprese sono diventate protagoniste forti e di successo sui mercati del mondo. Perché a livello internazionale (e in Italia, lo dimostrano gli ultimi dati) la lotta all'evasione fiscale affila sempre più le sue armi.
Spetta al centro-destra, che politicamente ha in mano la locomotiva del Nord, riscrivere il "patto" e metterlo in chiaro. Non è facile, nel paese degli 8 milioni di partite Iva, ma è una scelta obbligata sulla via della riforma.

guido.gentili@ilsole24ore.com

13 aprile 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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