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Insomma, o è un incrocio di circoli viziosi fra le parti, o è l'apertura verso orizzonti troppo ampi per essere dominati da loro. Si può dar torto ai palestinesi che hanno smesso di crederci, convinti come sono che a loro conviene che non si approdi a nulla? È accaduto più volte nella storia che stati, governi, partiti non siano riusciti a fare il loro stesso interesse, prigionieri di vincoli interni o incapaci di controllare le variabili in gioco. Sarà questo il caso d'Israele? E sarà anche quello di tutti noi, alle prese con un Iran di cui potremmo non venire a capo?
Un libro che sta facendo rumore (e di cui sul Sole 24 Ore si è parlato il 6 dicembre scorso) si chiede se per Israele non sia meglio sconnettere la propria statualità dalla sua esclusiva radice ebraica. È The Invention of the Jewish People, di Shlomo Sand, professore all'Università di Tel Aviv. Prescindo dalle polemiche degli storici sul profilo retrospettivo della questione. Certo si è che per il futuro la domanda è quasi obbligata, se la somma di ciò che Israele fa e di ciò che non riesce a fare porta verso la "one state solution". Ma attenzione. Una cosa è deciderlo con lungimiranza, vista la impraticabilità di altre soluzioni, una cosa ben diversa è esserci trascinati dal fatalismo vendicativo dei palestinesi, alimentato da negoziati che falliscono, da violenze che non si ha la forza d'impedire, da muri che si costruiscono, dall'influenza venefica del regime iraniano.
E allora si facciano bene i conti e si guardi anche con occhio nuovo ai temi negoziali da porre sul tappeto. In nessun caso però Israele e la comunità internazionale possono sottrarsi alla difficile costruzione di condizioni di fiducia e di pace in sede locale e nella regione. Nell'interesse di tutti e in primo luogo di quella civiltà europea che si è trapiantata là attraverso Israele.