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LA MANO VISIBILE / Il vero prezzo degli alimenti a chilometri zero

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13 Dicembre 2009

Mentre a Copenaghen sfilano i no global, a casa nostra l'ambientalismo si affida a un ardito gruppo bipartisan di parlamentari (ben 100) firmatario di un progetto di legge presentato da Ermete Realacci e Susanna Cenni del Pd e teso all'offerta di prodotti alimentari a chilometri zero. L'immaginifica definizione è coniata per descrivere una normativa che concederebbe benefici e agevolazioni (abbattimento di contributi, titoli preferenziali negli appalti pubblici, spazi riservati nei mercati) a chi produce, consuma e distribuisce (anche ristoranti) prodotti coltivati entro un raggio di 70 km. Addirittura si prevede un nucleo speciale di carabinieri che investigherebbe se la zucchina è stata messa a coltura al km 69 dal mercato o a quello 71.

A questo proposito, la Coldiretti ha commissionato allo studio Ambrosetti un'indagine che asserisce un legame diretto tra quantità di CO2 immessa nell'aria e distanza tra luogo di produzione e quello di consumo. Il ragionamento è semplice: per trasportare merce servono carburante e imballaggi che sono inquinanti. Il vino australiano consuma quasi 10 chili di petrolio al litro per arrivare sulle nostre tavole: che scempio!

Proviamo dunque a fare una prima analisi del disegno di legge. In primis è assolutamente antieconomico e implica nuove tasse per tutti. Infatti, se fosse stato profittevole arare e seminare i terreni nel raggio di 70 km (approfittando fra l'altro dei già ampi sussidi che l'agricoltura europea riceve) qualcuno lo avrebbe fatto. Per convincere un imprenditore a impugnare la vanga i contribuenti dovranno perciò sovvenzionarlo, direttamente o indirettamente poco importa.

Il danno è ulteriore perché i soldi così investiti avrebbero potuto essere invece impiegati per attività più redditizie che avrebbero creato ricchezza e lavoro. Inoltre, al territorio che viene innaffiato di fertilizzanti, e percorso da macchinari che bruciano carburanti e spargono liquami, chi ci pensa?

Non dimentichiamo, poi, l'ulteriore costo burocratico di enforcement: invece che perseguire le adulterazioni, i poveri carabinieri andranno in cerca della melanzana forestiera. Le truffe? Innumerevoli. Sfido chiunque ad affermare che sarà un'impresa facile distinguere al ristorante i ravanelli di Forlì da quelli di Savona.

E il Terzo mondo? La concessione di aiuti pubblici, amministrati da politici e burocrati, genera corruzione ed essi sono assegnati agli amici più che ai bisognosi. Il valore dei finanziamenti, peraltro, si riduce a causa dei costi d'amministrazione, mentre la soluzione più ovvia e gratuita (anzi, riduce la burocrazia) è aprire i mercati. Abbattere le barriere doganali è l'atto politico più a favore dei poveri che ci si possa immaginare; d'altronde, creare ricchezza è il modo migliore per rendere più pulita la produzione. Chi ha fame non ha denaro per le norme antinquinamento.

Ah, dimenticavo, vari studi (Lincoln University, 2007, Università di Giessen, governo inglese) contestano l'equazione tra lontananza ed inquinamento: pare che per l'ambiente sia meglio importare un agnello in Germania dalla Nuova Zelanda che allevarlo in una fattoria teutonica!

Non voglio concludere che il conflitto d'interesse di Coldiretti, i cui membri sarebbero beneficiari di una preferenza per produzioni locali, abbia inquinato le conclusioni dello studio; tuttavia, in assenza di certezze scientifiche, perché procedere a una distruzione, quella sì certa, di benessere e libertà di scelta?

adenicola@adamsmith.it

13 Dicembre 2009
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