La modestissima ripresa dell'economia europea, cresciuta di appena lo 0,1% nel quarto trimestre dell'anno scorso, ha spento – o quantomeno ridimensionato – le aspettative di un'imminente uscita dalla crisi. Anzi, sono ora in molti ad attendersi che l'effetto combinato della riduzione dei piani di stimolo economico e dei danni causati dall'ondata di gelo che ha colpito l'Europa in gennaio e febbraio possa portare a un nuovo trimestre negativo per l'economia continentale nel suo insieme. Così, con la prospettiva di una ricaduta in recessione non più facilmente escludibile, una questione di fondo accomuna ora i 16 paesi dell'area euro: come evitare che una «double dip recession» aggravi ulteriormente lo stato delle finanze pubbliche nazionali e soprattutto il già asfittico mercato del lavoro.
In questo senso, è interessante notare come sia cambiata radicalmente la situazione tra le due sponde dell'Atlantico. Due anni fa, quando esplose la crisi finanziaria, la classe politica europea reagì con un'ottimismo quasi supponente: è un problema tutto americano, si diceva, l'eurozona è ben protetta dai suoi solidi fondamentali e da una posizione esterna ben bilanciata.
Oggi si scopre il contrario: mentre l'America – che ha potuto beneficiare del doppio ruolo della Fed di controllore dell'inflazione e di manovratore della crescita economica – è ben avviata sulla strada della ripresa, l'eurozona è stata colpita nel 2009 da una recessione peggiore di quella americana e tutto lascia pensare che il 2010 sarà un anno ancora molto difficile. La crisi del debito in Grecia e il crollo della fiducia degli investitori internazionali nei confronti dei paesi europei economicamente più fragili sono fenomeni che lasciano il segno.
Anche se i paesi europei marciano con velocità diverse e hanno diversa flessibilità nel mercato del lavoro, rendendo difficile la definizione di politiche industriali continentali, lo shock provocato dal nuovo deterioramento del quadro economico ha comunque prodotto un primo effetto importante.
Banchieri centrali, policymaker e istituzioni internazionali come il Fondo monetario hanno cominciato a discutere sia sulla necessità di modificare il raggio d'azione delle politiche macroeconomiche continentali, sia sull'opportunità di dare alla Bce margini di manovra più ampi nella vigilanza sui bilanci nazionali, per rassicurare mercati e investitori. La velocità d'azione e di coordinamento mostrata durante la crisi dalle grandi banche centrali ha riportato calma sui mercati, ma ha anche messo a nudo l'inconsistenza delle risposte politiche e regolamentari.
L'esempio più chiaro di questo dibattito è giunto ieri dal Fondo Monetario: nel documento «Rethinking Macroeconomic policy», il Fondo propone una radicale riforma delle politiche macroeconomiche e finanziarie, ventilando l'opportunità di concentrare in un unico soggetto non solo gli strumenti di politica monetaria necessari per vigilanza sui prezzi e crescita economica (modello Federal Reserve) ma anche gli strumenti regolamentari concepiti per frenare eccessi e distorsioni dei mercati. «Il trend verso la separazione di queste funzioni – ha detto Olivier Blanchard, co-autore dello studio e responsabile dell'ufficio studi – dovrebbe essere presto invertito». Il dibattito è aperto. I policymaker europei hanno la responsabilità di non lasciarlo trasformare in un confronto puramente accademico.