In tempi non sospetti, all'inizio del 2003, il guru dell'investimento Warren Buffett li definì «armi finanziarie di distruzione di massa». Il boom dell'uso dei prodotti derivati era agli inizi. Da allora, il volume nozionale lordo dei derivati over-the-counter, trattati cioè fuori dai mercati regolamentati, è balzato fino a raggiungere 600mila miliardi di dollari a fine 2008. I Cds, i contratti utilizzati per assicurarsi contro il default di un debitore, sono passati praticamente da zero a 60mila miliardi di dollari a fine 2007 (per poi scendere a 30mila nell'anno e mezzo successivo).
I derivati Otc sono ai primi posti nella lista dei colpevoli della grande crisi finanziaria. Poco trasparenti, difficili da valutare, o senza valore nel caso estremo di inaridimento della liquidità, sono all'origine della "tossicità" dei bilanci delle banche che tanto incertezza ha creato e crea tuttora nel sistema finanziario. Non sorprende quindi che una revisione profonda dei derivati (qualche estremista ne chiede l'abolizione tout court) sia anch'essa ai primi posti nell'agenda di riforme della finanza globale post-crisi. Il Financial Stability Board, cui il G-20 le ha demandate, insiste per spostare l'ingente massa dei derivati Otc su piattaforme centralizzate o su mercati regolamentati. E questo indubbiamente rafforzerebbe il sistema, minimizzando quel rischio di controparte che ha seminato il panico con il collasso di Lehman e con quello sfiorato di Aig. Se ne discute, in forme diverse, in Europa e negli Usa.
I derivati "su misura", trattati fuori mercato, sono stati un'enorme fonte di profitti per le banche e non stupisce quindi che queste resistano ai cambiamenti. Ma in questi giorni è sceso in campo un difensore meno atteso, l'Eact, l'associazione europea dei tesorieri d'impresa. Oltre 160 tesorieri di imprese non finanziarie hanno firmato una lettera alla Commissione europea per ricordare una semplice verità: i derivati non hanno solo una funzione speculativa, anzi la loro origine è nella necessità di copertura dalle oscillazioni dei mercati, siano essi quelli delle materie prime, dei cambi o dei tassi. E in questo modo li usano (o dovrebbero) le imprese: non per fare soldi con i soldi, ma per proteggere quelli fatti con l'attività industriale.
Le proposte avanzate finora in Europa, dice l'Eact, aumenteranno i costi per le banche, che si rivarranno sulle imprese. Queste, invece che del rischio delle loro controparti bancarie - che ritengono di saper gestire - si troveranno ad affrontare la gestione di un rischio di liquidità per far fronte ai margini richiesti. Con due conseguenze: ridurre sia i fondi disponibili per investimenti produttivi, sia l'uso di un hedging prudente per contenere i rischi di mercato. Effetti certo controproducenti per un sistema delle imprese che la crisi ha già lasciato a corto di credito. Il risultato finale rischia di essere maggior incertezza per l'economia reale. Riforme sì, allora, ma con giudizio.