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LETTERE DALL'AMERICA / Se New York insegna a vivere controvento

di Davide Rondoni

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13 Novembre 2009

Caro Direttore,
la signora è sovrappeso, cammina lentissima controvento per St. Nicholas street a uptown. Si appoggia al carrello tipico degli ammalati. Trema, fa un passo. Trema ancora, un altro passo. Io dentro al negozio attendo che la gentile e svogliata commessa dominicana mi consegni un telefono per poter parlare oltreoceano. Ho fretta. Devo andare a Philadelphia per una lettura di poesie all'Università. Mi blocco a guardare lei, che va così lenta fuori dalla vetrina. E penso il pensiero banale e violentemente vero.

New York con la sua rapidità facilissima o le visioni di un'umanità che se la cava a costo di grandi sforzi ti fa chiedere sempre: e io dove sto andando? Che tradotto per noi che veniamo da secoli di letteratura nata nei tempi in cui discutevano tra loro Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Chiaravalle, Abelardo e i poeti provenzali e poi i siciliani e toscani, significa: e io che cosa e come sto amando?

New York attende metà svagata e metà preoccupata di capire se la crisi passerà davvero. «Ho visto troppi amici perdere il lavoro», dice il mio traduttore Greg Pell, guidando verso sud. «Dicono che c'è la ripresa. Ma la ripresa fatta coi soldi dello Stato è vera ripresa?». Ora a New York, prima e come nel resto del mondo, si chiedono anche: passerà l'influenza? Quante cose ci attraversano la strada. Qualcosa che rallenta il passo fino a doversi appoggiare a un buffo carrello. Quando la vita sembra andar liscia, e si può camminare, può sempre capitare qualcosa. Qui il fatto di poter andare è una specie di religione. Grandi strade, vie sotterranee comode e capillari, rotte aeree per dovunque.

Andare, diceva Kerouac, andare sempre. Era un grande sognatore dell'America, la cercava fino allo spasmo, come ha cantato per la sua morte l'amico poeta Gregory Corso. Ma arriva la crisi, e arriva l'influenza. E andare diventa un problema. Iniezioni di liquidità governativa, iniezioni di vaccini. Rallentare il passo significa rallentare il cuore? O vivere si può, anche controvento, nell'età della crisi, nell'età dell'influenza, nell'età del carrello?

Ho letto da qualche parte in Italia, su una rivista, «l'io non chiude mai». Una rivista per imprenditori. Gente che magari sta pensando se ce la può fare, o se è meglio chiudere. Qui, lo sai bene, sull'io, sulla personalità capace di affrontare le sfide hanno costruito l'idea e l'immaginario della nazione intera. Beh, ora la crisi, l'influenza, l'emergenza di grandi diseguaglianze stanno mettendo alla prova tutto questo. Forse anche per questo motivo su un quotidiano l'altro giorno c'era una specie di ritratto della grande storia d'amore dei due inquilini della Casa Bianca. Come a dire: perfino il Presidente non ce la può fare da solo.

D'accordo, conosci anche tu il gusto per il pastone sentimentale. Ricaverebbero storie lacrimevoli e commoventi anche da faccende ridicole. Ma il fatto resta, e mister Obama, maglioncino scuro e capelli ingrigiti per la dura realtà del potere, sa che la cosa peggiore nei momenti di crisi è dar l'idea di essere superman. Da soli non ce la si fa. Da soli l'io chiude, va in bancarotta. Per questo credo che il male della nostra epoca sia, dentro la crisi o dentro l'influenza, o nella loro ombra, la solitudine.

È, per così dire, il male che aggrava gli altri mali. Non basta avere a disposizione telefonini venduti da gentili commesse che ti connettono in un istante con l'altra parte del mondo. Né essere in milioni con twitter o facebook. Il contrario della solitudine non è la comunicazione, ma l'amicizia. O l'amore. Dev'essere questo che dà forza al passo tremante della signora su St. Nicholas street. L'argomento di cui discutevano Guglielmo e Bernardo e poi Guido e Dante. Il 200 e il 300 furono un'epoca di grandi questioni sull'amore. Per questo, credo, poterono affrontare la peste senza venire travolti del tutto.

13 Novembre 2009
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