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Usa, Cina e l'eterno sorpasso mancato

di John Plender

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13 Novembre 2009

Mentre il presidente Barack Obama affronta i primi dossier in Asia, in Occidente è parere largamente condiviso che i suoi appuntamenti saranno con le autorità di nazioni che tutto sommato si collocano tra i junior partner dell'America. La realtà, invece, è molto più complessa. Nelle macerie della crisi finanziaria, lo status degli Stati Uniti di unica superpotenza e di leader indiscusso dell'economia globale appare sempre più a rischio. In particolare, quando la settimana prossima arriverà a Pechino, nulla potrà dissimulare il fatto che Obama si reca in visita al maggior creditore del suo paese.

Quanti si rallegrano per le difficoltà nelle quali si dibatte l'America fanno notare che questo colosso dell'economia mondiale è incatenato al maggiore debito estero del mondo e indebolito da una valuta in forte calo. È opinione comune che la Cina sia la principale beneficiaria della débâcle finanziaria globale e sia diventata uno sfidante potente dell'egemonia statunitense.

Poiché molto spesso la potenza economica va di pari passo con la forza militare, questo spostamento del potere economico, unitamente alla recente debolezza del dollaro, è stato sbandierato come un fenomeno precursore del declino americano. Ha saputo abilmente cogliere questa sensazione il titolo del bestseller appena pubblicato da Fareed Zakaria, L'era post-americana. In seguito è arrivato il riferimento di Obama nel suo discorso inaugurale a un «indebolimento della fiducia nel nostro paese; un'inquietudine fastidiosa secondo la quale il declino dell'America è inevitabile e le future generazioni dovranno abbassare le loro aspettative».

Paul Volcker, ex presidente della Fed e consigliere del presidente, ha accennato a ciò facendo alcune osservazioni durante una recente intervista televisiva alla Pbs, l'emittente pubblica statunitense: Volcker ha detto che l'ascesa dei mercati emergenti è «simbolica della posizione relativa e meno dominante degli Stati Uniti, non soltanto nell'economia, ma anche nella leadership politica, a livello intellettuale e in altri campi ancora».

L e banche centrali nei Paesi in via di sviluppo hanno cosparso sale sulle ferite del gigante in agonia: la Reserve bank indiana la settimana scorsa si è unita alle banche centrali di Cina, Russia, Messico e Filippine, scegliendo d'incrementare le proprie riserve aurifere preferendo il metallo giallo a titoli in dollari. Un autentico coro di esponenti politici di Paesi che hanno eccedenze delle partite correnti ha dichiarato che il ruolo del dollaro come valuta per le riserve è insostenibile.

Adesso è quanto mai importante tenere presente che a questo punto eravamo già arrivati: alla fine degli anni 80, Paul Kennedy dell'Università di Yale lasciò sbalordite le schiere degli esponenti della middle-class o delle classi più alte, con una solida istruzione alle spalle e che amano esprimere le loro opinioni, dichiarando nel suo libro Ascesa e declino delle grandi potenze che «l'unica risposta alla sempre più dibattuta domanda avanzata dall'opinione pubblica - se gli Stati Uniti possano continuare ad avere la posizione che hanno attualmente - è no».

Questo pessimistico verdetto sopraggiunse più o meno in corrispondenza del crollo del mercato azionario del 1987, quando predominò la duplice forte preoccupazione per il budget degli Stati Uniti e per i deficit delle partite correnti. Quella era la prima volta che gli Usa si indebitavano a livello internazionale e che dipendevano sempre più dall'afflusso di capitali europei e giapponesi. Era il Giappone, fiducioso al massimo nelle proprie possibilità, a essere in piena ascesa. La sensazione di un declino imminente si propagò in tutti gli Usa, portando la popolazione sulla soglia dell'isteria allorché le aziende giapponesi non si lasciarono sfuggire l'occasione di mettere le mani sul Rockfeller Center a New York, sulla Columbia Pictures a Hollywood e perfino sul campo di golf di Pebble Beach in California. Abs News chiese agli spettatori: «Chi è il proprietario dell'America?».

Da un certo punto di vista la tesi del professor Kennedy era giusta. Mentre Cina, India e altri mercati emergenti recuperano lo svantaggio che avevano nei confronti del mondo sviluppato, gli Stati Uniti sono destinati a patire un relativo declino economico sotto forma di una percentuale in calo di prodotto interno lordo globale, malgrado il fatto che crescano più velocemente della maggior parte delle più grandi economie sviluppate del mondo e restino in assoluto la più grande economia del pianeta.

La globalizzazione e la liberalizzazione interna hanno offerto a questi paesi in via di sviluppo l'occasione giusta per contribuire al Pil globale con una percentuale più adeguata alle loro dimensioni e alla loro storia. La performance economica della Cina prima del 1978 è stata un'aberrazione, dopo tutto, vista dalla prospettiva di secoli.

In uno studio sulle economie più forti, Angus Maddison dell'Università di Groningen ha calcolato che nel 1820 - prima che la rivoluzione industriale in Europa prendesse slancio - la partecipazione della Cina al Pil globale era superiore al 30%, ben superiore all'attuale partecipazione degli Usa. Di conseguenza, potremmo supporre che sia in corso un ritorno a qualcosa di più normale.

  CONTINUA ...»

13 Novembre 2009
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