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GENDER GAP / Chi dice donna non dice Italia

di Emma Bonino, Fiorella Kostoris e Valeria Manieri

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13 Ottobre 2009

Ieri la prima studiosa donna ha vinto il premio Nobel per l'economia, Elinor Ostrom dell'Indiana University, e ne siamo liete, in un anno record di cinque Nobel femminili. Domenica, sul Sole 24 Ore Moisés Naím ha scritto che «si chiama donna il mondo globale», perché mai in passato nel pianeta erano esistiti tempi così favorevoli per la popolazione femminile, in termini di potere e lavoro retribuito.
Nulla del genere si sarebbe potuto scrivere sulla condizione italiana del gentil sesso. L'ultima riprova ne è la bozza del nostro decreto di recepimento della direttiva europea 2006/54 riguardante «l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento... in materia di occupazione e impiego». Essa giunge in ritardo di più di un anno rispetto a quando era dovuta, e appare gravemente insufficiente per almeno tre motivi.
1. Si pretende di adottare una riforma a costo zero a fronte di una situazione di disparità d'accesso e soprattutto di trattamento sul lavoro delle donne, che pone l'Italia all'ultimo posto nell'Unione Europea, con la sola eccezione, forse, di Malta. In proposito è grave che i risparmi di finanza pubblica, ottenuti a seguito dell'aumento dell'età di quiescenza nelle pensioni di vecchiaia delle lavoratrici del pubblico impiego (legiferato nel luglio 2009, dopo la sentenza di condanna della Corte di giustizia europea) non siano andati a beneficio dell'universo femminile, bensì di un generico Fondo strategico per politiche sociali e familiari, in particolare a favore della non autosufficienza.
2. Giustamente la direttiva europea impone agli stati membri di designare uno o più organismi indipendenti «per la promozione, l'analisi, il controllo e il sostegno della parità di trattamento... senza discriminazioni basate sul sesso». La bozza di recepimento italiano individua poco opportunamente tali organismi nel(la) consigliere(ra) nazionale di parità e nella rete dei consiglieri locali. Pur non negando l'utilità di queste figure, ma insieme notando i modesti risultati da esse finora conseguiti, bisogna sottolineare che:
- non possono essere definiti indipendenti né terzi rispetto all'esecutivo (caratteristica tipica dei componenti delle Authority) i consiglieri che sono nominati (articolo 12 della bozza di recepimento) «dal ministro del Lavoro di concerto con il ministro delle Pari opportunità» e ad essi debbono riferire anche con la presentazione di rapporti circa la propria attività, mentre sono tali ministri quelli che relazionano al parlamento;
- il consigliere nazionale di parità opera in comitati e collegi presieduti dal governo, dove la stragrande maggioranza dei partecipanti è costituita da rappresentanti delle parti sociali, dell'associazionismo femminile e della burocrazia ministeriale. La sua indipendenza è ulteriormente minata dal fatto che il mandato, originariamente previsto «di quattro anni rinnovabile una sola volta» (decreto legislativo 198/2006), può, secondo la bozza di recepimento, essere rinnovato in eterno, se così piace ai due ministri in carica sopra citati;
- la procedura di nomina dei consiglieri rimane del tutto opaca, limitandosi all'«espletamento di una valutazione comparativa», laddove invece sarebbero opportune una piena trasparenza e l'introduzione di requisiti innovativi, simili a quelli recentemente deliberati da questo stesso governo in altre norme (quali quelle sull'Anvur, l'Agenzia nazionale per la valutazione dell'università e della ricerca, promossa dalla ministra Gelmini o sul neoapprovato decreto Brunetta per «l'efficienza e la trasparenza della pubblica amministrazione»). Ad esempio, si potrebbe ipotizzare che per la nomina dei componenti degli organismi indipendenti operanti per la promozione e il controllo della parità di genere, voluti dalla direttiva europea, fosse istituito un comitato di selezione di autorevoli personalità esterne all'amministrazione, atte a proporre una lista di nomi entro cui il governo possa scegliere (Anvur), oppure si facesse ricorso a meccanismi di garanzia rafforzata, richiedenti due terzi dei voti favorevoli del parlamento (decreto Brunetta).
3. La direttiva stabilisce che gli stati membri trasmettano alla commissione europea ogni quattro anni un rapporto su «eventuali misure adottate in base all'articolo 141 del Trattato (servendosi cioè della discriminazione positiva di genere), nonché relazioni su tali misure e la loro attuazione». Tutto ciò al fine di arrivare a un confronto intracomunitario. Paradossalmente, quasi risibilmente, la traduzione nel recepimento italiano di questo concetto consiste nel prevedere una relazione sugli «esiti delle valutazioni in merito al mantenimento delle differenze di trattamento tra uomo e donna consentite dalla normativa vigente» nel nostro paese.
La proposta operativa che intendiamo illustrare è dunque semplice: in omaggio al sopra citato articolo 141 e alla direttiva 54, si crei in Italia un'Autorità indipendente per l'effettiva parità di genere nel mercato del lavoro. Essa sia dotata di un budget non ampio ma adeguato al compito di combattere le secolari, perduranti e talora crescenti discriminazioni esistenti non tanto nell'accesso, nella retribuzione a parità di occupazione, nella formazione professionale o nei regimi di sicurezza sociale, quanto nel trattamento sul lavoro delle donne, drammaticamente colpite da segregazioni, soprattutto verticali, che impediscono loro di rompere il soffitto di cristallo delle posizioni apicali, nonostante il loro maggiore capitale umano.
  CONTINUA ...»

13 Ottobre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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