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IL SIGNIFICATO DEL NOBEL / Quando il mercato non è tutto

di Giulio Napolitano e Antonio Nicita

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13 Ottobre 2009

Nell'anno dell'esplosione della crisi finanziaria globale, arrivano due chiari messaggi dall'assegnazione del Nobel per l'economia a Oliver Williamson ed Elinor Olstrom: uno per i policy makers e l'altro per la ricerca sociale. Ai primi viene ricordato che l'uso del mercato ha un costo; che l'efficiente scambio dei diritti e delle promesse contrattuali sul mercato dipende dalla qualità del disegno istituzionale e delle regole che lo governano; che vi sono valori collettivi che non possono essere soddisfatti tramite il mercato. Agli scienziati sociali è ribadita la centralità dell'approccio interdisciplinare ai confini tra economia, diritto e scienza politica. La teoria economica deve abbandonare ogni pretesa di egemonia culturale. Ma la ricerca di buone regole e istituzioni non può fare a meno di una valutazione preventiva dei loro effetti sui comportamenti dei diversi attori.
Da entrambi i punti di vista, dunque, è particolarmente importante che il premio Nobel sia stato assegnato a due studiosi che, pur lavorando con gli stessi strumenti concettuali dei teorici più liberisti della New Political Economy, più e meglio di altri hanno saputo evidenziare, invece, i limiti del mercato e l'importanza di buone istituzioni pubbliche.
Oliver Williamson, ideatore del filone della New Institutional Economics, ha mostrato come uno dei più pervasivi fallimenti del mercato derivi dall'esistenza di rilevanti costi di transazione. Questi sono dovuti alla incompletezza dei contratti e alla scarsa verificabilità di molte promesse. Per affrontare transazioni di mercato complesse, allora, i soggetti economici devono sostenere rilevanti costi, la cui dimensione dipende anche dalla qualità della regolazione del mercato. Quando l'incertezza sottostante una data transazione è molto elevata, il mero ricorso al mercato può generare assetti inefficienti e deprimere forme di investimento innovativo. Per questa ragione, accanto agli scambi di mercato, emergono soluzioni istituzionali e organizzative basate su relazioni gerarchiche di autorità, come avviene all'interno dell'impresa. Ai fini dell'efficienza e della crescita economica, le relazioni di autorità contano quanto il mercato, anzi il mercato - per funzionare bene - ha bisogno di autorità e di buona governance. Una teoria applicata non solo alle imprese e ai modelli di governo delle stesse, ma anche all'organizzazione dello stato, alle forme di federalismo, al decentramento efficiente, con conclusioni eterodosse, ad esempio, rispetto al favore fino a poco tempo fa imperante per misure di radicale privatizzazione di funzioni e servizi pubblici.
Letta con le lenti della crisi finanziaria, la teoria di Williamson ci stimola così a guardare al mercato e alla sua governance con il dovuto disincanto, senza riporre ingenua fiducia nelle naturali virtù dell'autoregolamentazione, con l'obiettivo piuttosto di ridurre la potenzialità distruttiva dei conflitti di interesse.
Il contributo di Elinor Ostrom affronta analoghi problemi di incompletezza e opportunismo, sebbene da una prospettiva diversa, derivante anche dalla sua formazione di political scientist. La Ostrom, in particolare, analizza gli effetti dell'incompletezza dei diritti proprietari sull'allocazione delle risorse sul mercato. Anche quando i diritti di proprietà sono debolmente definiti - come nel caso dei beni pubblici o dei beni a proprietà comune (commons) - possono emergere forme di opportunismo, in presenza di un divario tra benefici privati e costi sociali. L'esempio più evidente è quello dei beni comuni come l'aria, l'acqua, il suolo, l'uso delle risorse ambientali in generale. Per questi beni, il mercato lasciato a se stesso finisce per generare allocazioni inefficienti o, peggio, la dissipazione delle risorse.
Soggetti razionali tenderanno ad appropriarsi dei benefici derivanti dall'uso non cooperativo delle risorse ambientali, scaricandone i costi sociali sugli altri soggetti. Un tema diventato di drammatica attualità nel caso dei beni comuni globali, quali l'atmosfera minacciata dai gas climalteranti. La Ostrom ha in particolare studiato le forme alternative di governance dei beni comuni, dalla gestione pubblica diretta alla privatizzazione, dalla regolazione amministrativa alle politiche di tassazione, evidenziano meriti e rischi delle diverse soluzioni istituzionali. Ha così insegnato a tutti noi che i luoghi e i beni dove le persone vivranno, lavoreranno e passeranno il tempo libero nel prossimo futuro saranno inevitabilmente governati e amministrati da sistemi misti di proprietà collettive e individuali.
Il comun denominatore degli studi di Williamson e Ostrom, in conclusione, risiede nel sottolineare la complementarietà tra mercato e governo o, se si vuole, tra incentivi e regole, per quelle transazioni e per quei beni che i meccanismi di scambio non riescano ad allocare e a tutelare in modo efficiente. Il sapere degli economisti, dunque, ha ancora molto da insegnare agli attori politici e agli altri scienziati sociali. Soprattutto quando rifugge da facili semplificazioni e quando aiuta a disegnare istituzioni e regole consapevoli dei fallimenti del mercato.

gnapolitano@uniroma3.it

nicita@unisi.it

13 Ottobre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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