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Ripartiamo dagli esportatori

di Sergio De Nardis

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14 aprile 2010

Nel dibattito sulla bassa crescita italiana torna a farsi strada l'idea che una delle cause sia la specializzazione sbagliata della nostra industria. Ma che cosa significa specializzazione sbagliata? Se si intende il frutto amaro del processo d'integrazione internazionale c'è da allarmarsi. Tutti concordano, almeno sulla carta, che per lo sviluppo del paese serve allargare lo spazio della concorrenza e del merito. Un luogo che presenta già oggi queste caratteristiche al massimo grado è il mercato globale. È lì che le risorse si spostano secondo le convenienze: non ci sono protezioni, né relazioni privilegiate; è quanto più si avvicina al mondo idealizzato della piena liberalizzazione. Se, quindi, la manifattura italiana ha queste fattezze è perché i consumatori e i produttori delle varie parti del mondo quando desiderano soddisfare un bisogno o migliorare la loro produzione preferiscono, scegliendo in una vasta platea di competitori, acquistare un dato prodotto italiano. Sono gli importatori sparsi nel globo a dare forma, con le loro decisioni, al pattern delle nostre esportazioni.

Si ritiene che queste scelte portino a esiti sfavorevoli per l'Italia, a dei fallimenti di mercato? Se è così, non sembra esserci che una strada. Si deve trovare il modo di erigere protezioni che difendano la manifattura dalle influenze indesiderate del mercato e che diano tempo a un policy maker esperto e lungimirante di realizzare le azioni per cambiare vantaggi comparati radicatasi nell'arco di un trentennio; magari fino al punto di ribaltare in esportatori i settori in cui siamo attualmente importatori (la famosa alta tecnologia). Ma chi veramente sarebbe disposto a pagare lo scotto dell'interferenza con i risultati del merito per dirigersi verso questa incerta sponda?

C'è naturalmente la questione della bassa produttività che non può essere elusa: è ciò che spinge ad auspicare una struttura diversa. Su questo fronte, però, non si dovrebbero trascurare i cambiamenti in atto. Le stime Istat hanno preso a rivalutare, sulla base di nuove informazioni, la dinamica degli indicatori di produttività. Quelle Euklems, su cui ci si deve basare per effettuare confronti omogenei tra paesi, sono attualmente inferiori alle ultime valutazioni Istat: ciò in parte riflette differenze metodologiche; in notevole misura dipende dal ritardo con cui quella banca dati incorpora le innovazioni dei conti nazionali. Resta comunque confermato, anche con le nuove stime Istat, il gap di produttività apertosi nella seconda metà degli anni 90. Su di esso hanno influito molteplici fattori, verosimilmente anche le liberalizzazioni nel mercato del lavoro che hanno favorito l'ingresso nell'attività produttiva di forza lavoro meno qualificata.

Tuttavia, tra il 2003 e l'avvento della gelata recessiva la produttività industriale è tornata a crescere; forse anche più di quanto dicono i dati ufficiali (+1,2% all'anno), se si tiene conto di una possibile sottovalutazione dell'output destinato al mercato estero. È un fatto importante. Si tratta della prima esperienza, dopo molto tempo, di ripresa duratura della produttività in assenza di svalutazione del cambio. È stata il portato delle riorganizzazioni realizzate dalle imprese nel corso della prima metà del decennio in risposta agli shock competitivi di quel periodo: euro, Cina, Multifibre. Nonostante simili spallate, la specializzazione è apparentemente mutata poco. Molto, però, è cambiato sotto la superficie, dentro i settori e all'interno delle imprese, in termini d'innovazioni di prodotto e di processo; non altrimenti sarebbe spiegabile il fenomeno della persistenza della specializzazione.

I protagonisti della riorganizzazione sono stati gli esportatori. Stiamo parlando di un numero relativamente piccolo di imprese: su 100, solo 17 nell'industria si rivolgono al mercato estero (anno 2007). Questo perché gran parte delle piccolissime imprese (meno di 10 addetti) vendono solo all'interno. Ma già tra i 20 e i 50 dipendenti, gli esportatori divengono una significativa maggioranza; si tratta di una peculiarità tutta italiana, sintomatica dell'esistenza di elevate soglie di produttività anche nelle fasce dimensionali minori. Sembra futile cercare di spacchettare ulteriormente quel 17% alla ricerca delle eccellenze. In un certo senso, tutti gli esportatori costituiscono, nel loro insieme, la nicchia competitiva della popolazione delle imprese italiane.

Sono gli operatori che trainano il valore aggiunto industriale (ne coprono l'80%), presenti nei comparti tanto di vantaggio che di svantaggio comparato. Sono quelli più produttivi, selezionati dall'inasprimento della concorrenza: il risultato delle scelte del mercato, quelle stesse che avrebbero condotto alla specializzazione sbagliata. Sono lì a segnalare che ai fini della produttività non è tanto importante "il cosa" si produce, ma che i migliori siano prescelti a realizzarlo. Si può cercare con accorte politiche (crescita dimensionale nei segmenti più piccoli) d'infittirne la schiera, ma non di molto: in tutte le economie, anche le più forti, gli esportatori sono una netta minoranza. Nel caso del nostro paese costituiscono la non labile base da cui ripartire per intercettare la difficile ripresa internazionale.

Sergio De Nardis è direttore dell'unità macroeconomia dell'Isae

14 aprile 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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