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I consumi e gli impieghi da incoraggiare sono quelli che non intaccano ma accrescono il patrimonio - dei privati e collettivo - e che non comportano un servizio insostenibile ma, al contrario, generano flussi di reddito attraverso i quali si ripaga con ragionevole certezza il debito. È una generale transizione dall'eccesso di consumi non durevoli al rafforzamento di quelli di beni durevoli di cui abbiamo bisogno. A cominciare dalle infrastrutture: materiali e immateriali.
Ma c'è anche un quarto fenomeno sul quale veramente quasi nessuno attira l'attenzione. Esso tocca la responsabilità preminente delle banche, non della politica. Riguarda i criteri da seguire nelle ristrutturazioni dei debiti delle imprese non finanziarie. Laddove l'intermediazione finanziaria è pressoché al 100% di esclusiva natura bancaria, come nel nostro paese, alle banche spetta evitare ristrutturazioni finanziarie di imprese che possano tradursi in nuovo e censurabile azzardo morale. Se si vuole che il mercato funzioni in piena trasparenza e remunerando in maniera corretta i rischi va evitato che le banche procedano proprio nei confronti delle imprese più e peggio indebitate a transazioni che riducono fortemente il loro debito e creano anche equity fresco a favore degli stessi azionisti di controllo responsabili di avventurose e instabili politiche aziendali.
Si determina così un doppio vulnus al principio della giusta concorrenza tra imprese. Proprio quelle imprese verso le quali le banche sono state più generose in passato, magari in cambio di retrocessioni a pegno di asset acquistati a prezzi eccessivi grazie al credito bancario, sono le stesse imprese che oggi vengono premiate e sostenute. In tal modo l'imprenditore serio e misurato, che ha evitato prima della crisi il passo più lungo della gamba e l'eccesso di debito, si trova spiazzato due volte dalle banche, prima della crisi e anche oggi, a vantaggio di concorrenti più irresponsabili eppure premiati.
Va rilevato, inoltre, che qualunque transazione "generosa" di una banca è un costo che viene spalmato, attraverso la crescita degli spread, su tutti gli operatori sani. Bisogna affermare con chiarezza un principio: nelle difficoltà da eccesso di debito le aziende vanno salvate, i loro azionisti no. Altrimenti il principio di sana concorrenza verrebbe alterato. Gli asset tangibili e intangibili di un'impresa vanno riallocati a proprietà più efficienti. Esattamente come, di fronte ad aziende senza più mercato, la politica deve tutelarne i dipendenti ma all'interno di un mercato del lavoro aperto e libero, non per forza nell'impresa com'era e dov'era. Altrimenti, significa solo spendere denaro pubblico per difendere aziende improduttive.
Da quanto sopra discendono i conseguenti correttivi da adottare.
Circa il modello bancario vanno definiti alcuni ambiti di intervento. Il rafforzamento dei requisiti patrimoniali delle banche secondo Basilea 3 è cosa giusta ma va adottato progressivamente in modo da non determinare troppe restrizioni sull'ammontare degli impieghi. È urgente l'adozione di un'architettura di vigilanza condivisa e il più possibile analoga tra le tre diverse maggiori aree mondiali. Così come servono criteri condivisi per il sostegno agli intermediari "troppo grossi per fallire", ma con procedure chiare e definite preliminarmente. Sarebbe forse il caso, interpretando fedelmente lo spirito del diritto sulla concorrenza, di limitare le possibilità di superare quel tetto oltre il quale il soggetto non può più fallire. Bisogna, inoltre, valutare attentamente la possibilità di tornare indietro rispetto al modello di banca universale, tendenza radicale verso la quale è legittimo lo scetticismo, mentre sarebbe auspicabile la separazione per tipo di impieghi.
Insieme alla ricapitalizzazione graduale delle banche è auspicabile che si ripatrimonializzino a mano a mano anche le imprese. Sarebbe quindi positiva una revisione delle caratteristiche dell'imposizione fiscale che oggi favorisce l'imprenditore quando immette capitale attraverso finanziamenti (per esempio le obbligazioni con aliquota al 12,5%) piuttosto che come capitale (imposizione al 27,5%). È chiaro, a questo punto, che la parte dovranno farla in tre: le banche, le imprese, ma anche lo stato. Il momento è propizio in quanto c'è abbondanza di capitali in mano ai privati - affluiti con lo scudo fiscale - che, se stimolati, si possono tradurre in equity per le imprese.
Oltre alla selezione della domanda e all'esigenza di evitare azzardo morale anticoncorrenziale a vantaggio delle imprese imprudenti, vale la pena aggiungere che le banche italiane attraverso le fusioni hanno perso, in parte, il tradizionale contatto con il territorio creando una barriera fra l'imprenditore e i dirigenti della banca suoi interlocutori. In alcune aree del paese, cito l'esempio di Roma, la mancanza di organi decisionali a livello locale allunga i tempi e non permette più alle banche di dare una valutazione delle imprese oltre i numeri, essendo scemato il rapporto personale. Le imprese non possono essere ridotte a un mero numero in una schermata di computer. Questo è uno dei punti su cui bisogna intervenire. Che cosa si aspetta a superare il criterio dei rating solo patrimoniali elaborati dalle banche sulle imprese? A tenere finalmente conto di criteri tangibili come l'investimento in capitale umano e di altri intangibili come la regolarità dei pagamenti effettuati e ottenuti da clienti e fornitori? Francamente, mi sembra che di più e di meglio si possa fare.
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