Il 2010 è un anno pari. E chissà che questo non possa essere di buon auspicio per fare qualche passo in avanti nella direzione di garantire opportunità più uguali a uomini e donne. Secondo la strategia di Lisbona il 2010 appena iniziato avrebbe dovuto essere un primo traguardo: le donne occupate avrebbero dovuto raggiungere il 60% e i bambini coperti dal servizio di asilo nido il 33 per cento. In realtà, come è ben noto, questi obiettivi non sono stati raggiunti, in Italia e in Europa. Per l'Italia il 2010 può essere un nuovo punto di partenza. Il documento presentato dai ministri Sacconi e Carfagna a inizio dicembre con l'indicazione della strategia del governo sulla promozione dell'occupazione femminile ha come titolo «Italia 2020». Il che suggerisce che i tempi sono ancora lunghi.
Donne in attesa? Un recente articolo dell'Economist individua nell'emancipazione economica femminile il maggiore cambiamento sociale dei nostri tempi. Questo sembra però valere di più in alcuni paesi che in altri, o, come nel caso italiano, in alcune aree del paese rispetto ad altre. Insieme agli innegabili progressi, che a ritmo differenziato si sono osservati ovunque, coesistono resistenze e difficoltà che rendono questo cambiamento meno fluido. Ovunque, per esempio, la maternità rappresenta un nodo cruciale per l'occupazione femminile e per le opportunità di carriera delle donne.
Di maternità si è discusso e si continua a discutere molto. Lo stesso documento Italia 2020 pone la maternità al centro della questione della parità di genere nel mondo del lavoro, un punto senza dubbio corretto. Ma quali soluzioni emergono? Tra ministre che annunciano di non volersi assentare dal lavoro e lavoratrici che scappano alla scoperta della gravidanza può esserci una strada virtuosa?
Due sono gli elementi che ci sembrano importanti per discutere di maternità e occupazione femminile: la qualità del lavoro e la condivisione della cura dei figli. Come si posiziona su questi due punti il piano Italia 2020?
La qualità del lavoro contribuisce a tenere le future mamme più saldamente attaccate alla loro professione. Molte imprese se ne sono accorte e hanno sviluppato programmi e azioni di mentoring per agevolare il rientro dopo la maternità, nella logica che un comportamento cooperativo tra impresa e lavoratrice sia proficuo per tutti. Il piano punta su forme di flessibilità degli orari e dell'organizzazione del lavoro (part-time, banca delle ore, telelavoro) e su programmi di reinserimento a seguito della maternità. Lo sviluppo di queste misure è per lo più affidato alle prassi aziendali e soggetto al monitoraggio della "consigliera" di parità, e il governo si è ritagliato solo il ruolo di coordinatore di azioni che, forse, verranno.
La divisione delle responsabilità genitoriali è un altro aspetto importante; al di là del parto e dell'allattamento, la cura dei figli può e dovrebbe essere svolta da entrambi i genitori, e non gravare quasi esclusivamente sulle madri, come attualmente succede, soprattutto in Italia, generando gli ostacoli ben noti alle loro opportunità lavorative e di carriera. Di ribilanciamento del lavoro di cura all'interno della coppia non si parla espressamente in Italia 2020. In risposta alle esigenze di conciliazione di lavoratrici e lavoratori si fa invece riferimento al rafforzamento dei legami intergenerazionali e allo sviluppo di «reti che promuovano interventi e servizi innovativi». Le soluzioni prospettate sono principalmente familiari (i nonni per i bambini e i figli - più realisticamente le figlie - per gli anziani) o servizi privati alla prima infanzia, ad esempio tagesmutter, buoni lavoro e buoni infanzia.
Promuovere i legami intergenerazionali invece di prevedere un intervento diretto sull'infanzia e sugli anziani è scorretto: perpetua lo sviluppo di un welfare con una donna giocoliera al centro, crea immobilismo geografico e sociale e riduce l'uguaglianza delle opportunità.
E poi, perché solo soluzioni di tipo privato? L'Italia non è certo un paese a bassa spesa pubblica e ha un sistema di welfare tradizionalmente generoso. Si tratta tuttavia di un sistema fortemente sbilanciato verso la spesa pensionistica, con margini molto bassi per la spesa per le famiglie. Perché non prevedere dunque un ripensamento della composizione della nostra spesa per il welfare, dove i bambini e le famiglie, come insieme di componenti, e non solo il capofamiglia abbiano adeguata protezione? Si dirà che i margini di manovra attraverso la spesa pubblica sono molto limitati. L'innalzamento dell'età di pensionamento delle donne prometteva degli spazi che dovevano essere espressamente indirizzati alla spesa per la famiglia. Li stiamo opportunamente utilizzando?
I ritardi italiani nella parità di genere sul lavoro hanno una componente culturale, come riconosciuto dal documento del governo: cultura che il governo potrebbe contribuire a modificare, ripartendo dal ruolo che esso stesso dà alle diverse componenti della spesa pubblica.
Speciale Le donne motore dell'economia