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La libertà chiede di tollerare le sciocchezze

di Alessandro De Nicola

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14 marzo 2010


Non è un paese per vecchi è un bel film dei fratelli Cohen e il titolo è entrato nel linguaggio comune. Ma attenzione a utilizzare l'espressione in modo appropriato. Se infatti vi trovaste a rilasciare un'intervista e, riferendovi a un boxeur di 50 anni che si ostina a calcare il ring affermaste incautamente «la boxe non è uno sport per vecchi», vi potreste trovare querelati e condannati dalla Suprema corte di Cassazione per il reato di diffamazione, previsto dall'articolo 595 del codice penale che recita: «Chiunque... comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione è punito con la reclusione» fino a tre anni se il reato è commesso a mezzo stampa.
Reputazione? Ma che c'azzecca (per utilizzare i termini di un equilibrato giureconsulto diventato politico) la reputazione? La frase non offendeva mica l'onorabilità del boxeur, asseriva solo per mezzo di una sineddoche che era troppo vecchio per dare pugni su un ring. E in ogni caso si tratta di un'opinione ed essendo la libertà di parola difesa dalla Costituzione italiana e da una sfilza di altri trattati sui diritti umani cui aderisce il nostro paese, come si può far ricorso alla galera per sopprimerla?
Ahi, ahi. Una tale risposta non sarebbe al passo coi tempi. Infatti, i nostri supremi togati hanno condannato un sindacalista il quale, riferendosi alla conduzione del carcere di Arienzo (Caserta) da parte della direttrice, aveva affermato in un intervista al Corriere di Caserta che «sarebbe meglio una gestione al maschile» del penitenziario. Opinione questa giudicata «certamente lesiva della reputazione della direttrice, trattandosi di un suggerimento assolutamente gratuito, sganciato dai fatti e che costituisce una mera valutazione, ripresa a caratteri cubitali» (capite? addirittura cubitali!) «nel titolo» del giornale. Perciò la censura è sganciata da ogni «dato gestionale ed è riferita al solo fatto di essere donna, gratuito apprezzamento, contrario alla dignità della persona perché ancorato al profilo ritenuto decisivo, che deriva dal dato biologico».
Dietro i paroloni non c'è niente se non un inchino retorico al politicamente corretto. E qui non si tratta di maschilismo (che sarebbe imprudente da parte di chi scrive, visti i vertici proprietari e societari del giornale) ma del semplice fatto che le idee sbagliate e anche le corbellerie non vanno condannate penalmente ma nell'arena del confronto. Quando lo stato e i suoi servitori, i giudici, pretendono di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato pensare, sempre ammesso che non si inciti alla violenza o non si incorra nella calunnia, gli esiti possono essere imprevedibili. Le differenze di genere o di razza e la maggiore propensione di asiatici o ebrei o bianchi o neri ad alcuni sport o discipline intellettuali o mestieri non devono spaventare e sono il legittimo campo di ricerca di sociologi, economisti e biologi. È invece fondamentale che nessun individuo sia limitato nella sua libertà da divieti normativi fondati su asserite differenze tra categorie (bianchi/neri, uomini/donne, etero/omo). Le generalizzazioni contengono sempre inesattezze e sfociano in pregiudizi, ma non in reati: se per criticare il presidente delle ferrovie perché i treni arrivano in ritardo si dicesse che ci vuole una gestione svizzera saremmo di fronte a una discriminazione anti-italiana? Mah.
La libertà è un bene così prezioso che dobbiamo imporci di tollerare anche quelle che riteniamo sciocchezze pur di non concedere a qualcuno l'ingrato compito di recintarla.

14 marzo 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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