Qualche volta i contagi possono rivelarsi positivi. Così accade oggi in Calabria. Due anni fa, tra lo scetticismo generale, la Confindustria siciliana decise di dire no al racket. Quella che sembrava un'accorta operazione di marketing si è tradotta in una successione costante di denunce. Un risultato che è servito a far superare le diffidenze e che ha soprattutto incoraggiato, in particolare quelle imprese, dall'altra parte dello Stretto di Messina, che con le aziende siciliane hanno a lungo condiviso le stesse paure e le stesse collusioni. A lungo silenti, le aziende calabresi cominciano ora a sentire la necessità di una svolta. Al punto da tappezzare la regione di cartelli contro il pizzo. Il percorso è qui, più che in Sicilia, accidentato perché a differenza di Cosa Nostra, messa in difficoltà dal contrasto dello stato, la 'ndrangheta è al top della sua potenza. Le ambiguità sono inoltre rese sabbie mobili da una società civile che stenta a farsi sentire (a parte qualche importante eccezione come il movimento "Ammazzateci Tutti") tuttavia la svolta c'è. L'importante, però, è che non si fermi ai cartelloni pubblicitari e, come in Sicilia, entri nei tribunali.