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Anderlini suddivide in quattro gruppi distinti i lavoratori del campione veneto. Vi sono «i giovani appena entrati nel mercato del lavoro», occupati nelle microimprese «in condizioni di forte inferiorità salariale e normativa», privi di tutela sindacale e disposti alla mobilità perché intenzionati a migliorare il loro stato. Vi è «lo strato delle lavoratrici», addette in prevalenza ai settori tradizionali, occupate in aziende di piccole dimensioni, prive dello scudo sindacale e con un curriculum professionale «sostanzialmente piatto», soggette a uno scambio continuo fra ruolo familiare e ruolo di lavoro. Segue la cerchia dei maschi «dislocati nella zona "centrale" del sistema produttivo», con una situazione privilegiata dal punto di vista delle tutele e delle opportunità occupazionali. Infine, esiste lo strato residuale dei «lavoratori più attempati», quelli giunti all'industria dal processo di mobilizzazione a cui era stata sottoposta l'agricoltura. Tutte queste componenti sono toccate, pur in varia misura, dalla «mobilitazione di mercato», mentre risentono di una «peculiare conformazione della delega politica», che mantiene una «bassa strutturazione organizzativa».
Ad Anderlini non sfugge la difficoltà in cui incorre la mediazione democristiana, che sottostà a un «appannamento», testimoniato dalla presa decrescente del suo sistema di potere. Il problema è che «al forte declino della Dc non corrisponde alcun avanzamento dei partiti della sinistra». L'«area mobile del voto» finisce col riversarsi allora sulle liste laterali, come in primo luogo la Liga Veneta: insomma, si affacciano «appartenenze deboli» e «latenze disaffettive». Per dirla con un linguaggio più diretto, si delinea un senso di estraneità verso la politica dei grandi partiti e anche verso le forme istituzionalizzate della rappresentanza. Per converso, si afferma una dimensione più locale e immediata, che spregia le tradizioni e le culture cui si è conformata fin lì l'Italia repubblicana.
Il voto di protesta
L'identikit dell'operaio leghista si rivela «una figura malcerta e ambivalente». È un lavoratore socialmente dinamico, che non mostra affatto il disdegnare il sindacato. Ma nel medesimo tempo appare venato di "acredine qualunquistica", orientato «verso il voto localistico/protestatario» quando addirittura non si rifugia polemicamente nell'astensione o nell'annullamento della scheda elettorale. Operai come questi non hanno una storia da vantare e non danno luogo ad alcuna «sottocultura di gruppo», differenziandosi così in maniera radicale dai loro compagni delle grandi imprese. Per loro, il senso della solidarietà «resta semplice "amicizia", non diventa "solidarietà di classe"». Nel loro comportamento penetrano certamente i temi e gli atteggiamenti della modernizzazione, ma senza intaccare una certa passività di fondo.
Pure, insiste Anderlini, nulla di tutto ciò può essere giudicato come un lascito del retroterra contadino, né come il sedimento di una «mentalità piccolo-padronale». Nella volontà di mettersi in proprio si esprime piuttosto «un'ansia di protagonismo, una inappagata vis competitiva, il prolungarsi di un atteggiamento di sfida». È questo il «riflusso», il «ritorno al privato», di cui si discute in quel momento? Indubbiamente per quello che ancora si designa come il «movimento operaio» si dischiude «una prospettiva a rischio elevato»: corre il pericolo di essere abbandonato tanto dagli «umili», cioè «i gruppi più sfavoriti, ai margini», quanto dai «nobili», cioè dai nuclei più solidi. Altro che l'«operaio sociale» di cui favoleggiavano i gruppi estremistici: i lavoratori periferici finiscono con l'essere la smentita vivente di tutti quegli stereotipi che hanno tardivamente alimentato il confronto ideologico del decennio 70.
L'immagine degli operai abbozzata da questa ricerca non riusciva certo «esaltante» per la sinistra, giacché ne mortificava le aspettative e gli «ottimismi». D'altronde, molti erano ancora riluttanti ad accogliere per buone le cifre che davano conto della presa locale delle formazioni leghiste. Nelle rappresentazioni degli operai settentrionali hanno così finito spesso per sovrapporsi opinioni e stereotipi incastratisi in un mosaico incoerente. Marginali dal punto di vista del rilievo sociale, non lo sono tuttavia da quello strettamente economico e produttivo, dal momento che i loro numeri non si sono affatto contratti con la celerità che era stata pronosticata. Professionalmente in situazione di debolezza, continuano pur sempre a costituire - almeno nel loro nucleo centrale più stabile, che coincide con gli assunti a tempo indeterminato - una tipologia occupazionale non assimilabile a quella sfera del lavoro più flessibile e meno garantito, con cui tuttavia confinano e sempre più frequentemente devono coabitare. Incardinati in un'organizzazione sociale poco mobile, vi si riescono a muovere ancora con un certo grado di sicurezza soltanto a patto di rispettarne la rigida scala delle segmentazioni.