Fastidioso come le zanzare di agosto (efficace il paragone di Alberto Orioli sul Sole 24 Ore dell'11 agosto) il dibattito sulle zone salariali sta perdendo "spinta propulsiva" senza spegnersi del tutto, dal momento che il tema "mal posto e peggio risolto" è entrato a far parte del carnet rivendicativo della Lega Nord.
Anziché mettere "tutto in politica", sarebbe stato più opportuno riscoprire il senso vero di una storia iniziata nel 1954 quando, il 12 giugno, venne stipulato (senza la firma della Cgil) l'accordo sul "conglobamento retributivo", allo scopo di riordinare la struttura salariale e assorbire nella "paga base" una serie di voci particolari che erano venute ad accavallarsi nel tempo.
In tale contesto, il territorio nazionale fu diviso in 14 "zone salariali", determinando i nuovi minimi secondo il criterio del costo della vita nelle diverse realtà (il differenziale fu fissato nell'arco massimo del 29%). Poi, nel 1961, tenuto conto delle trasformazioni del paese, della sua economia e del mercato del lavoro, le zone furono dimezzate (accordo interconfederale 2 agosto 1961, sottoscritto anche dalla Cgil) stabilendo uno scarto tra la prima e l'ultima in misura del 20 per cento.
Prima di quell'evento (il 16 luglio del 1960) era intervenuto l'accordo sulla parità retributiva tra lavoratori e lavoratrici.
Quale anticipazione dell'autunno caldo del 1969, tra la fine del 1968 e i primi mesi dell'anno successivo, furono stipulati - dapprima con l'Intersind-Asap, l'associazione rappresentativa delle aziende a partecipazione statale, poi con la Confindustria - accordi per l'abolizione delle zone e delle differenziazioni retributive territoriali che andarono a regime qualche anno dopo.
Al dunque, come erano formate le zone? Sicuramente, anche nell'assetto del 1961, era inevitabile il divario tra Nord e Sud. Ma i negoziatori di quei tempi si dimostrarono capaci di definire una soluzione equilibrata per tutto il territorio nazionale.
Nella zona 0, ad esempio, insieme a Milano, Torino e Genova, ai vertici del triangolo industriale, stava Roma (non ancora "ladrona"). Napoli aveva trovato posto nella zona III - in posizione extra, cioè con una maggiorazione nel parametro - insieme ad Alessandria, Belluno, Bologna, La Spezia, Mantova, Modena, Padova, Parma, Piacenza, Ravenna, Reggio Emilia, Verona, Vicenza.
Palermo - l'altra capitale del Sud - era inclusa nella zona IV insieme a città della Romagna, della Toscana e dell'Italia centrale, per non parlare delle settentrionali Asti, Cuneo, Udine e Treviso. In zona V, Bari, Cagliari, Catania, Messina, Lecce, Salerno, Taranto erano mescolate con Ascoli Piceno, Frosinone, Latina, Perugia, Pesaro, Pescara, Rieti, Terni, Viterbo.
Nemmeno nell'ultima zona, la VI, erano confinate unicamente province del profondo Sud, pur se il loro numero era prevalente. Infatti, anche nella zona in cui le retribuzioni minime erano inferiori del 20% rispetto a quelle in vigore a Milano, stava un pezzo d'Italia unita: Agrigento, Avellino, Benevento, Brindisi, Caltanissetta, Campobasso, Caserta, Catanzaro, Chieti, Cosenza, Enna, Foggia, L'Aquila, Macerata, Matera, Nuoro, Potenza, Ragusa, Reggio Calabria, Sassari, Siracusa, Teramo, Trapani.
Resta solo da concludere con una considerazione: l'Italia ha espresso, in tempi assai più difficili degli attuali, una classe dirigente orientata ad unificare il Paese anche quando la realtà imponeva di prendere atto dei suoi divari. La regola era semplice: essere equi, avere una visione equilibrata e nazionale, sgombra da pregiudizi e rivalse.