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LA NUOVA UNIVERSITÀ / L'occupazione è finita nel '68

di Alessandro Schiesaro

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15 Aprile 2010

Davvero le nostre università rischiano di essere svendute? Lo teme Dario Antiseri (Corriere della sera del 29 marzo), secondo il quale prevedere una quota di esterni nei consigli di amministrazione degli atenei prefigura il rischio che «rilevanti pezzi della nostra università cadano sotto la mannaia di astuti interessati o di presuntuosi incompetenti» scelti tra «industriali, imprenditori e bancari». Sembra quasi che "esterni" significhi per forza "privati", con tutto il bagaglio ideologico e politico che questo slittamento semantico inevitabilmente implica, non consiglieri indipendenti che apportano esperienze e competenze di diversa natura, magari professionisti o professori di altri atenei, magari proprio ex alunni che in quanto tali hanno particolarmente a cuore le sorti dell'università in cui si sono formati.
Né castigamatti, né azionisti, né avventurieri, gli esterni potrebbero arricchire il processo decisionale con un punto di vista terzo rispetto alle dialettiche interne dell'istituzione. Spetterebbe soprattutto a loro, in quanto consiglieri indipendenti senza vincolo di rappresentanza rispetto a una specifica corporazione interna, privilegiare una prospettiva d'interesse pubblico generale, che non sempre e non automaticamente coincide con interessi di chi si trova pro tempore a lavorare o studiare nell'ateneo. È essenziale, naturalmente, che questi consiglieri siano scelti bene, un compito che resta del tutto interno all'ateneo: difficile - a questo punto - prospettare una "svendita" dell'università a interessati o incompetenti.
Assai peggiore del (presunto) male sarebbe invece far entrare esterni in consiglio, come talora si ventila, in cambio di contribuzioni a favore dell'ateneo. In questo modo gli "esterni" diventerebbero di fatto azionisti, e la loro presenza non sarebbe più basata su competenze personali, indipendenza e terzietà, ma sulla mole di denaro che ciascuno è in grado di garantire: allora sì con uno stravolgimento radicale dell'assetto pubblico del nostro sistema universitario, a quel punto effettivamente messo, se non in svendita, certo almeno in vendita.
Da quasi mille anni il rapporto tra le università e il mondo che le circonda è complesso, conflittuale. Ma non è alzando i ponti levatoi che questi problemi si risolvono, bensì studiando forme di collaborazione e scambio che non facciano perdere di vista a nessuna delle istituzioni coinvolte lo specifico della loro missione. Proprio per questo sarebbe bene evitare che il dibattito ricada nel "complottismo" acutamente diagnosticato da Andrea Romano come costante del nostro spirito pubblico (Il Sole 24 Ore del 9 dicembre 2009).
La "narrazione cospirazionista" impone di credere che nulla sia mai come appare, nulla sia mai determinato dalle forze apparentemente in campo, tutto sia deciso "altrove" sulla base d'interessi inconfessabili di cui tutti e ciascuno siamo senza eccezione portatori occulti. Nel caso specifico ne discenderebbe il corollario che non esistono oggi in Italia un centinaio di persone (a) oneste, (b) competenti, (c) interessate al bene di un'istituzione culturale e non al proprio tornaconto. Eppure i dati di cui disponiamo raccontano una storia diversa. Nel nostro paese il terzo settore gode di ottima salute e riscuote molta fiducia, onlus di diverso tipo contribuiscono in modo importante allo sviluppo della ricerca (basti pensare a Telethon) e non risulta che, dove i consiglieri esterni sono già previsti autonomamente dallo statuto, questi siano segnalati per rapacità o stupidaggine.
Oltre al rapporto con gli esterni, merita oggi prestare attenzione in termini nuovi a quello con il territorio. Da gennaio, almeno sulla carta, l'università di Trento è divenuta responsabilità della provincia autonoma, anche se restano da determinare le precise modalità di questo trasferimento di competenze. A un ruolo più importante in materia universitaria aspirano molte regioni di centro-destra e di centro-sinistra, a giudicare da varie dichiarazioni pubbliche ma anche da passi concreti come la recente legge regionale della Toscana.
Nulla di male, in linea di principio, ma è importante interrogarsi a fondo su quali prospettive potrebbe aprire una vera e propria regionalizzazione del sistema, che inevitabilmente comporterebbe un'esposizione molto forte non solo agli equilibri politici locali, ma anche alle esigenze del territorio in un'ottica non necessariamente coincidente con la dimensione nazionale e soprattutto internazionale che la ricerca e la didattica universitarie devono sforzarsi di contemplare. Anche in questo caso non si tratta di demonizzare a priori un possibile nuovo assetto nei rapporti tra atenei, centro e regioni, ma di comprenderne con attenzione vantaggi e problemi.

15 Aprile 2010
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