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Dialogo e riforme, non è troppo tardi

di Stefano Folli

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L'immagine del volto sanguinante di Silvio Berlusconi è insieme la fotografia di un uomo sofferente e il simbolo di un fallimento politico. Per la precisione, il fallimento della cosiddetta «seconda repubblica» che doveva garantire un bipolarismo maturo e un confronto sereno tra due schieramenti, mentre invece ha dato luogo a un conflitto perenne ed estenuante. Con risultati modesti, per non dire quasi nulli, se si guarda al vantaggio del cittadino.
L'esaltato di Milano, sotto questo aspetto, non è solo un debole di mente; è piuttosto l'interprete, certo inconsapevole, della condizione cupa, rancorosa e intimamente violenta in cui è immerso il paese. Una condizione che rispecchia la paralisi politica di un sistema asfittico, nel quale le riforme sono sempre annunciate e mai realizzate, dove l'avversario è un nemico da cancellare e le istituzioni non si rispettano, ma anzi sono delegittimate giorno dopo giorno. Motivo per cui il presidente del Consiglio viene presentato - senza prove o riscontri - come l'amico dei mafiosi stragisti; e d'altra parte non si esita a negare credibilità al presidente della Repubblica, alla Corte costituzionale, alla magistratura. Per non dire del parlamento, composto da deputati e senatori nominati dalle segreterie partitiche e di fatto costretto in uno stato di semi-disoccupazione.

La «seconda repubblica» doveva essere il sigillo che sanciva la ritrovata maturità dell'assetto politico, dopo il trauma di Tangentopoli. È stata invece un campo di Marte dove sono continuate per anni, fino a oggi e con pochi momenti di tregua, le grandi manovre pro o contro Berlusconi, il personaggio più anomalo ma anche più coriaceo e di forte personalità emerso negli ultimi quindici anni. Giorgio Napolitano ha parlato più volte, per condannarla, di «lotta politica esasperata». Si potrebbe aggiungere: esasperata e priva di una direzione, come un motore imballato.
Ora il volto insanguinato del presidente del Consiglio è un messaggio a tutti gli italiani, a chi lo ama e a chi lo odia. Al di là dell'onda retorica che ci sommergerà ancora per alcuni giorni, la domanda è: cosa succederà adesso? E la risposta immediata induce a riconoscere che qualcosa è cambiato, forse per sempre. S'intende, non perché siano destinati a essere accolti sul serio gli appelli, peraltro sacrosanti, che da domenica sera chiedono di abbassare i toni. Questo è persino accaduto, tranne le eccezioni, pur rilevanti, costituite da Antonio Di Pietro e Rosy Bindi, cui hanno fatto riscontro non pochi eccessi verbali a destra. Ma la questione va oltre le reazioni emotive dei primi giorni. Si tratta di capire se la classe politica, tutta insieme, è in grado di capire che un sistema paralizzato in cui cova la violenza è destinato a produrre disastri. Può darsi che siano eccesivi i timori di Giampaolo Pansa, che vede profilarsi il ritorno del terrorismo anni 70. Di sicuro però lo scenario autorizza ogni pessimismo, se non si rompe la tendenza all'intolleranza.
Secondo punto: l'aggressione di Milano rafforza senza dubbio Berlusconi dal punto di vista mediatico. Diventa più difficile il gioco di chi nella maggioranza puntava a logorarlo giorno dopo giorno, fino a provocarne l'esaurimento. Un leader come Berlusconi, che ha sempre fondato il suo potere non sulle istituzioni, ma sul rapporto diretto con la massa, vivrà la sofferenza personale come una rinnovata fusione con il suo popolo. In altre parole, da quell'attento comunicatore che è, utilizzerà l'incidente per consolidare se stesso e limitare lo spazio dell'unico avversario interno di qualche rilievo: il presidente della Camera. In ogni caso, chi ama Berlusconi è pronto ad amarlo di più e chi lo odia forse a odiarlo di più. Ma nel bilancio finale il vantaggio del presidente del Consiglio da domenica è cresciuto a dismisura. Ora spetta a lui fare un uso ragionevole di questa nuova condizione, sottraendosi alla solita tentazione plebiscitaria e rispettando la Costituzione che c'è, in attesa di quella che verrà.
Per le stesse ragioni, l'opposizione si trova a camminare lungo uno stretto sentiero. Pierluigi Bersani lo ha compreso e la sua condanna della violenza, «senza se e senza ma», vuole essere una sconfessione di Di Pietro. Ma l'Italia dei Valori resta per adesso un alleato tanto scomodo quanto irrinunciabile del Pd, soprattutto in vista delle regionali. Può darsi che anche questo sia destinato a cambiare, ma è troppo presto per dirlo. Certo è che d'ora in poi la strategia del centrosinistra dovrà essere più chiara. E se l'alleanza con Pier Ferdinando Casini dovrà prendere forma, potrà realizzarsi solo se si eliminano le ambiguità, gli impacci e il «non detto» degli ultimi mesi. Del resto, lo stesso Casini dovrà riflettere. Lui che è un tattico astuto, ha avuto la sfortuna di scegliere proprio la vigilia dell'aggressione per proporre una sorta di «fronte di liberazione» anti-berlusconiano esteso a Di Pietro.
Non poteva esserci momento più sbagliato. La fantasia della storia ha mutato scenario in un attimo. Ora Berlusconi è più saldo, sia pure per ragioni più emotive che politiche. Tutti gli altri dovranno ricominciare da capo. Magari si dovrà ripartire dall'inizio. Cioè da un sistema anchilosato e violento, a cui va dato uno sbocco costruttivo. Le riforme non possono essere una clava da scagliare sulla testa degli avversari, ma possono costituire un serio e non astratto terreno di confronto. Un modo per restituire dignità e un profilo civile al dibattito. Pensando, chissà, alla «terza repubblica».

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