Qualcuno ricorderà «Da zero a dieci», film del 2002 di Luciano Ligabue, in cui uno dei protagonisti chiede a tutti di dare un voto alla propria vita – da zero a dieci, per l'appunto. La stessa cosa, senza che a pretenderlo sia un amico, capita almeno dieci volte all'anno a ogni italiano. Ci sono i voti del riccometro, l'Isee, di cui vengono compilati oltre cinque milioni di esemplari all'anno. E i voti della patente a punti, che interessano più di 30 milioni di guidatori. E poi, tutte le pagelle e le graduatorie che servono per progredire – o cambiare – nel mondo degli studi e del lavoro: dai test d'ingresso in università alla carriera in magistratura.
Non è un caso, allora, che il meccanismo dei punti abbia fatto la propria apparizione anche nelle politiche sull'immigrazione. L'esigenza, in fondo, è sempre la stessa: trovare un sistema per confrontare in modo quantitativo gli aspetti qualitativi di individui e famiglie. E si spiegano così anche le polemiche sui criteri per l'attribuzione dei punti. Come quella sulla valutazione dei titoli nei concorsi per ricercatore universitario, dopo che alcuni atenei hanno limitato il numero massimo di pubblicazioni che un candidato può presentare.
I punteggi fanno la differenza anche per entrare in un'accademia molto particolare, la scuola allenatori di Coverciano. Qui chi ha giocato ad alti livelli ha un bel vantaggio (ogni stagione in serie A vale un punto, una partita 0,10), ma anche una laurea in scienze motorie può aiutare: 5 punti sono il primo passo, per cercare di ripetere le imprese di Marcello Lippi.