Svegliandosi da un sonno durato quattro anni, Google ha scoperto che la collaborazione non è un buon metodo per trattare con le autorità cinesi. Dal 2006 ha cercato di compiacere Pechino filtrando i siti non graditi e ne ha avuto in cambio attacchi di hacker, che si presumono di regime. Ora ha deciso di metter fine alla strategia del sorriso e forse allo stesso portale in mandarino, ricevendo come risposta un invito a rispettare le norme cinesi. La vicenda va molto al di là della semplice libertà economica di un'impresa straniera in Cina, come mostra anche la frase pronunciata mercoledì dal segretario di Stato Hillary Clinton: «Attendiamo spiegazioni». La Casa Bianca non può cedere. Google porta in Cina una visione non autoritaria dell'informazione e della comunicazione, la stessa sostenuta dal presidente Barack Obama che, nel suo viaggio a Pechino, disse di essere «uno strenuo difensore della libertà di utilizzo di internet: più siamo aperti più possiamo comunicare e somigliarci». Il motore di ricerca è oggi (anche) uno strumento importantissimo del miglior soft power di Washington, la sua capacità di spingere i popoli ad adottare la cultura dei diritti umani. Quel canale di comunicazione deve restare aperto.