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Lo sguardo lungo per banchieri e imprenditori

di Ettore Gotti Tedeschi

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15 gennaio 2010

Ci sono tre riflessioni utili per tornare al reale in economia. La prima riguarda la figura dell'imprenditore (e del banchiere) tradizionale. La seconda si rifà al, non condiviso, criterio reale di crescita: le nascite. La terza si riferisce all'esigenza di una strategia specifica per il nostro paese.
Bene, volendo esser provocatorio direi: non cerchiamo queste soluzioni presso gli economisti senza aver prima ben letto l'enciclica dello scorso luglio di Papa Ratzinger, Caritas in veritate, miniera di saggezza anche per riflettere su soluzioni economiche per l'uomo.

La prima riflessione è sulla figura e ruolo dell'imprenditore e del banchiere tradizionale, confusa e obliata negli ultimi tempi. Essa è richiamata indirettamente dall'enciclica quando auspica il senso di responsabilità personale, l'attenzione al lungo termine sostenibile e al rischio, l'attenzione verso il prossimo, la prudenza verso l'uso di strumenti tecnici rischiosi, eccetera. Negli ultimi anni questi fattori sono stati influenzati non poco dal processo di globalizzazione economica che ha spinto la crescita di dimensioni dell'impresa ridimensionando la figura dell'imprenditore.

Questo è stato progressivamente "diluito" dagli aumenti di capitale e nei processi di fusione, ma a volte persino considerato ostacolo all'efficienza e alla crescita. È stato spesso sostituito da fondi di investimento, dall'identità anonima, personalmente deresponsabilizzati, spesso distaccati dal territorio e dalle persone, dalle esigenze del lungo termine. Spesso sostituito con manager troppo motivati sugli obiettivi dell'azionista-fondo, troppo centrati sul breve periodo e perciò sull'esasperazione dell'efficienza a breve, troppo orientati al mercato borsistico, spesso a condizioni insostenibili a lungo termine.

Molte scelte e risultati hanno deluso, se non addirittura fatto ingiustamente perdere fiducia nel capitalismo, nell'opportuno buon ruolo dei fondi stessi, nella managerialità incentivata, nelle grandi dimensioni d'impresa e banca. Ora si chiede a banche e imprese di correggere gli errori ricapitalizzandosi. Ma per ottenere capitali necessari si deve dimostrare di saper generare utili adeguati in futuro. E questi non sono facilmente dimostrabili visto che la crisi economica reale sarà piuttosto lunga e complessa. La riduzione dell'indebitamento (il deleveraging) produrrà necessariamente effetti negativi sull'economia reale e ciò imporrà una maggior competizione per la sopravvivenza con risultati conseguenti.

Questo fenomeno poi sarà maggiormente complesso per chi è quotato in Borsa e si è impegnato a risultati ambiziosi. In molti casi potrà diventare anche necessario disinvestire attività non indispensabili al breve termine e concentrarsi su ciò che si dovrebbe saper fare meglio. Potrebbe riemergere, a questo punto, la figura rimpianta dell'imprenditore che sa darsi obiettivi a lungo termine e quella del banchiere tradizionale che sa gestire il rischio e l'attenzione al cliente sul suo territorio (speriamo non sia considerata troppo anacronistica).

Passiamo alla seconda riflessione proposta, anche se disprezzata, stretto senso, da molti. Per rilanciare realmente l'economia a medio termine sarà opportuno correggere errori nella gestione dello sviluppo fatti in passato e ben illuminati nell'enciclica. Bisognerà centrare lo sviluppo nella valorizzazione della vita umana promovendo un vero sviluppo integrale della persona. In pratica ciò significherà riprendere a fare figli e sostenere e valorizzare la famiglia, con politiche che vedono lo stato a lei sussidiario e non viceversa. Il sostegno della famiglia orientata alla crescita provocherà nuovi investimenti e consumi, sia pur con sobrietà ormai necessaria più che opportuna, ma produrrà anche maggior prezioso risparmio, necessario a ricostruire la base di capitale reale indispensabile all'espansione del credito bancario.

La terza riflessione si riferisce alle scelte strategiche specifiche per il nostro paese per tentare di trasformare alcuni caratteri legati alle nostre radici culturali cristiane in veri vantaggi reali, senza tante "visioni utopistiche". L'enciclica ricorda che «la crisi può diventare occasione di una nuova progettualità». Per competere nel globale, dobbiamo riconoscere che noi non abbiamo grandi vantaggi di costo, non abbiamo vantaggi tecnologici, non abbiamo più tanti vantaggi di prodotti unici e difendibili... Ma abbiamo ancora genio imprenditoriale (magari scarsamente incoraggiato), abbiamo ancora amore per la cultura (magari burocratizzata), abbiamo, nonostante tutto, preziosi valori morali cristiani (magari assopiti e scarsamente coltivati ), e infine bellezze naturali e artistiche a non finire (magari non ben valorizzate).

In pratica potremmo essere un perfetto paese, non solo di geniali piccoli-medi imprenditori con capacità innovativa e di adattamento unica al mondo, ma anche di vocazioni professionali orientate alla persona, quali medici, paramedici, insegnanti, ricercatori, volontari, valorizzatori del genio artistico e così via. Che rappresenterebbero un vantaggio competitivo vero se solo avessimo coltivato meritocraticamente e investito (integralmente) in queste capacità. Per compensare detti investimenti non fatti abbiamo però "esportato" all'estero molte di queste necessarie capacità. Se ricreassimo la base per valorizzare i nostri vantaggi potenziali trasformando i nostri "emigrati" in vantaggi competitivi, potremmo rendere subito attraente il ritorno dei nostri "cervelli" esportati, abituati a competere, che potrebbero integrarsi nelle università, ospedali e musei creando centri di eccellenza. Potremmo concorrere anche a risolvere un nostro problema endemico: l'attitudine assistenzialistica e la scarsa meritocrazia. Potremmo far diventare l'Italia una nazione privilegiata dove venire, oltre che a fare affari con i nostri imprenditori, a studiare, a curarsi, a riposarsi imparando.

  CONTINUA ...»

15 gennaio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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