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Meno stato (e più stato) per la Calabria

di Franco Debenedetti

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15 gennaio 2010

Non c'è nulla di reale a Rosarno: questa è la sensazione che resta in mente dopo aver letto pagine e pagine di reportage, analisi e commenti. Non sono reali gli incentivi europei né i quantitativi denunciati; non i sussidi di disoccupazione né le pensioni di invalidità. Non sono reali le fabbriche costruite e abbandonate, non l'ospedale edificato e mai aperto. Nell'anfiteatro finto greco nessuna voce supererà il rumore del traffico, il Palazzetto dello Sport è troppo piccolo per contenere il campo da gioco. Nulla corrisponde alla sua funzione, nulla è conseguente a una prestazione. Se non sono reali le cose, come possono essere reali gli uomini? Se l'attività principale è intercettare i flussi di danaro che provengono da fuori, non esiste valore aggiunto. I profitti non sono guadagni reali, sono soldi assegnati e divisi: e quello che la malavita pretende e impone è una sorta di contropartita per coprire le false invalidità dichiarate, i falsi quantitativi denunciati, le false opere costruite.

Le sole cose reali, a Rosarno, sono le arance appese agli alberi e "i neri" che le raccolgono: sono cose misurabili, tante arance si vendono, tante braccia le raccolgono. Quelle non reali non crescono sugli alberi, vengono da fuori. E se l'Europa cambia le regole, se Roma accenna a farle rispettare, allora è scontro tra i due mondi, quello reale delle arance e delle braccia e quello non reale delle quantità truccate e delle assistenze scroccate. Se gli aiuti diminuiscono, non è come quando cala il prezzo delle arance e non conviene farle raccogliere tutte nemmeno a 25 euro al giorno. Se invece di 1.800 braccianti ne servono mille in meno, che cosa sono su quelli che già stanno in Italia, sulla armata di riserva di quelli che vorrebbero venirci? Con le cose reali, gli immigrati che arrivano da fuori, l'elasticità è infinita. Invece con le cose non reali che arrivano dall'Europa o da Roma o da Reggio, non ci sono margini di elasticità. Chi teme che succeda qualcosa di diverso da prima, se la prende con chi è diverso da sempre. È stato così nei secoli.

Quando la domanda di braccia è così prevedibile, non ci vuole molto a soddisfarla nei limiti di legalità. Il problema non sta nell'immigrazione, sta in quelli che stanno in mezzo, tra il mondo delle arance e delle braccia e quello della tassa della malavita: a forza di vivere di cose non reali neppure sanno che vivono in un mondo non reale. E la soluzione sta nell'eliminare il mondo non reale: i sussidi, i contributi, le finte invalidità, le opere inutili. Lo dicono il calabrese Floriano Rubbettino, il siciliano Ivan Lo Bello, il pugliese Nicola Rossi. Con quello che si risparmia, si possono dare deroghe a contributi (comunque non pagati), pagare il contrasto al caporalato. Ma che cosa dare di reale a chi è abituato a credere che solo il non reale sia possibile? Basta la prospettiva di un'area di fiscalità di vantaggio a produrre incentivi in chi finora ha avuto come principale preoccupazione quella di intercettare i flussi che venivano dall'esterno?

Non è un fatto antropologico, sono le politiche di intervento che hanno distorto gli incentivi: si sono sviluppate competenze inutili, a scapito di altre. Come operare questa riconversione di obiettivi, di volontà, di speranze? Anche chi ha fiducia nella illimitata capacità degli uomini di inventarsi nuove opportunità, non può non pensare con un collettivo senso di colpa agli individui che da queste politiche di assistenzialismo e di trasferimenti sono stati ingannati e illusi. A differenza degli immigrati, per loro non ci sono centri di accoglienza.


Calabria, dove «nulla è come sembra»

15 gennaio 2010
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