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L'ombrello dell'euro ripara solo i più efficienti

di Alberto Alesina

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15 gennaio 2010

Quando nacque l'euro, undici anni fa, i motivi di preoccupazione erano tre. Primo, le esigenze di politica monetaria sarebbero state diverse da paese a paese in diverse fasi del ciclo: la moneta unica elimina questa flessibilità. Secondo, alla prima grave crisi i paesi membri avrebbero rigettato la camicia di forza dell'euro per andare ognuno per la sua strada. Terzo, la moneta unica per funzionare avrebbe bisogno di flessibilità dei mercati di beni, servizi e lavoro, perché i paesi dell'Eurozona perdono la possibilità di riguadagnare (temporaneamente) competitività con svalutazioni della moneta nazionale: ma queste riforme, si diceva, sono difficili in Europa.

Come giudicare i primi undici anni dell'euro, alla luce di questi timori iniziali? Prima della crisi del 2008-09 la Bce era criticata dai paesi che crescevano meno degli altri (l'Italia, per esempio) perché non spingeva di più sull'acceleratore, ma la Bce doveva preoccuparsi della media dell'area euro, non dei paesi a più bassa crescita. Quindi, la prima preoccupazione era fondata, ma solo in parte perché non è certo con la politica monetaria che si sostiene lo sviluppo nel medio periodo per un paese in cui la produttività e l'occupazione crescono poco. Le critiche alla Bce nel periodo pre-crisi erano poi largamente infondate perché la politica più cauta della Bce rispetto alla Fed era quella giusta. Tutto sommato, quindi i costi dell'euro legati allo sfasamento del ciclo fra paesi e le diverse esigenze di politica monetaria tra uno stato e l'altro si sono rivelati relativamente bassi.

La seconda preoccupazione è stata smentita dalla crisi. È opinione comune (e corretta) che senza l'euro si sarebbero probabilmente verificati attacchi contro le monete dei paesi più indebitati o più colpiti dalla crisi (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, Irlanda) con possibili forti svalutazioni e aumenti di tassi d'interesse necessari per difendere il cambio. Insomma una prospettiva da America Latina anni ottanta. Tutto ciò non si è verificato, anzi l'ombrello dell'euro e della Bce è servito come protezione.

Non solo, ma i paesi europei non membri ai confini dell'Eurozona (come Svezia, Danimarca e persino Inghilterra) si sono chiesti se non fosse stato meglio essere dentro l'area della moneta comune e in qualche caso hanno dovuto far salire i loro tassi, appunto per timori sui cambi.
La terza preoccupazione è forse la più valida anche guardando ai prossimi dieci anni di vita dell'euro. Quando un paese non riesce a far salire la propria produttività riducendo i costi per unità di prodotto con misure "reali", la tentazione è quella di svalutare la moneta per far salire le esportazioni (a scapito del potere d'acquisto dei consumatori). Tutti sanno che si tratta di un palliativo di breve periodo ma gli orizzonti della politica sono, appunto, molto brevi. Senza quelle misure fiscali di riduzioni di imposte e spese, di abolizione di monopoli, di eliminazione di dualismi e inefficienze nel mercato del lavoro con posti assolutamente fissi da un lato e precari poco produttivi dall'altro, di miglioramenti nel sistema educativo, la crescita non aumenta in modo permanente.

Qualche progresso è stato fatto nell'Eurozona nel decennio precedente la crisi, forse anche grazie al "rigore" imposto dall'euro. Nella prossima decade questi sforzi devono continuare, altrimenti la tentazione di uscire dall'euro per svalutare riprenderà forza. Ma per fortuna, e questa è una delle poche conseguenze positive della crisi, quest'ultima ci ha insegnato i rischi di un'Europa senza euro e gli euroscettici pre-crisi si sono per ora zittiti. È però molto probabile che la loro voce si risenta presto quando la crisi sarà storia passata.

Più il tempo passa più l'euro si rafforza e più sembrerà economicamente e politicamente costoso uscirne, quindi è quasi certo che nel prossimo decennio e oltre la moneta unica sopravviverà. Ma l'euro continuerà a far risaltare con più chiarezza i costi delle inefficienze e della produttività che non cresce. Il che è un bene perché serve da stimolo.

aalesina@harvard.edu

15 gennaio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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