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GIUSTIZIA LENTA/ Prigionieri per vent'anni di un fallimento

di Andrea Maria Candidi

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15 marzo 2010

Storie di ordinaria ingiustizia all'ombra delle sezioni fallimentari dei tribunali. Dove i giudizi che si celebrano sembrano consumare solo una cosa, il tempo. Nove anni e mezzo di media per chiudere un procedimento. Troppi, specialmente se si guarda agli estremi della forbice italiana: 5 anni a Trento, oltre 22 a Caltanissetta. Il rischio è che si perda di vista la vera essenza della posta in gioco. Da una parte, il diritto del creditore a riavere indietro il dovuto per utilizzarlo come meglio crede. Dall'altra, il diritto di una persona dichiarata fallita di rifarsi una vita, con tutte le cautele che un tale passato deve necessariamente imporre. In mezzo, il diritto di entrambi di ottenere giustizia in tempi rapidi, con l'unica (magra) consolazione di vedersi riconosciuto un indennizzo, anche se solo quando la macchina giudiziaria ha riconosciuto di aver esagerato con le proprie lungaggini.
E così si intrecciano vicende di persone distanti non solo per geografia e storia personale, ma anche per "posizione giuridica". Ad esempio, il caso di un imprenditore di Termoli, in provincia di Campobasso, dichiarato fallito nel 1992 e che oggi, dopo 18 anni, non ha ancora recuperato il diritto a esprimere il proprio voto perché la procedura non è ancora chiusa. Figurarsi poi chiedere un prestito in banca. Degli immobili pignorati fin da allora non ne è stato venduto neanche uno. La stessa sorte insegue inesorabile anche i suoi creditori: la giustizia non è riuscita a tutelare neppure loro.
L'altro esempio è quello del cittadino rimasto invischiato nel crac di un'impresa della Spezia dalla quale doveva avere indietro una piccola somma di denaro. Il fallimento è del 1989, la cifra era di oltre 19 milioni di lire, circa 18mila euro attuali. Forse la cifra non è elevata. Ma, specie oggi, può servire a superare un'emergenza o magari per cogliere un'opportunità.
Dopo quindici anni, riuscito ad avere ragione nella procedura fallimentare, ha aperto un altro fronte con la macchina giudiziaria per ottenere il risarcimento delle "lungaggini". A cui se ne sono aggiunte (purtroppo) altre: la corte d'appello ci ha impiegato cinque anni solo per riuscire a calcolare l'indennizzo. Cioè per fare una moltiplicazione: importo del risarcimento per numero di anni. Un'operazione difficilissima, all'evidenza, che ha costretto la Cassazione a scendere in campo una seconda volta: dopo essere stata chiamata a mettere la parola fine sul fallimento, il più alto organo giurisdizionale della Repubblica ha dovuto rifare pure i conti.

15 marzo 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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