È da quasi vent'anni che il redditometro figura tra gli attrezzi antievasione del fisco. Uno strumento usato poco, in verità, e rilanciato di recente, forse più con l'obiettivo di "puntellare" i traballanti studi di settore, depotenziati da innumerevoli bocciature nelle aule di giustizia, che non come modalità autonoma per il contrasto all'evasione fiscale di massa. Sta di fatto che nei programmi dell'amministrazione il redditometro, sembra destinato a ricoprire una posizione centrale nelle strategie per individuare redditi personali nascosti.
Dimmi quanto spendi e ti dirò quanto guadagni. Suona quasi banale il principio che governa gli accertamenti sintetici del reddito, dei quali il redditometro è una sottocategoria che si fonda sulla disponibilità per il contribuente di determinati beni e servizi (e, indirettamente, sui costi sostenuti per il loro utilizzo o mantenimento). Ma, a ben vedere, questo è il suo pregio: il redditometro è uno strumento intuitivo, perché è fuori dubbio che a maggiori spese o a maggiori disponibilità di beni debba corrispondere un'adeguata capacità reddituale, salvo prova contraria.
Ci sono, naturalmente, altre buone ragioni per condividere la scelta di puntare con più convinzione sull'uso del redditometro. Cinque milioni di partite Iva sono davvero troppe da tenere a bada: i controlli sono complessi, sono lunghi, onerosi.
Ecco, allora, che il redditometro diventa cruciale per fornire indizi importanti sulla "coerenza" dei redditi personali dichiarati a valle da questi e altri contribuenti, visto che non mira a individuare l'origine delle loro entrate (come fanno invece gli studi di settore), ma piuttosto a pesare i guadagni ufficiali con le "manifestazioni di ricchezza", che in genere non vengono nascoste.
Una strategia importante, quindi, che però ha bisogno di trovare oggi quella credibilità e quell'affidabilità che nel corso degli anni non ha mai avuto.
Nel '92, con il modello 740 lunare, il fisco chiese ai contribuenti molti dei dati necessari per applicare il redditometro (sollevando enormi proteste).
Oggi la situazione è radicalmente diversa: quelle informazioni, e infinite altre, sono già nelle mani del fisco.
Visto in quest'ottica, a dispetto della sua età, il redditometro è allora uno strumento moderno nella lotta all'evasione. Uno strumento quanto mai indicato per un sistema fiscale, come è il nostro, che può contare su imponenti banche dati; che può svilupparne altre; che può migliorare la capacità di incrociare tutte le informazioni presenti nei suoi archivi, comprese quelle da utilizzare nelle indagini finanziarie.
Ma, paradossalmente, così come è strutturato, è uno strumento non più attuale. Che può creare discriminazioni e iniquità perché, a esempio, non distingue (se non grossolanamente) tra una casa super lusso nel centro di Roma e un'altra di identica metratura nella zona industriale di Piombino. O che "pesa" allo stesso modo i cavalli fiscali dell'auto sportiva e quelli identici del Suv coreano. Che, ancora oggi, tra i beni considerati di lusso include i camper e gli autocaravan o il fatto di poter contare sull'aiuto di un collaboratore domestico.
L'amministrazione sa bene quali sono i limiti del redditometro e sa come rimediare. Sa che è necessario distinguere tra la disponibilità di un bene e il suo utilizzo effettivo (sostenendone le spese). Sa che gli indici e i coefficienti attuali sono assolutamente sfasati e che conducono a risultati non sempre limpidissimi.
Sa anche che - probabilmente - è sulle spese sostenute dai contribuenti più che sui beni a loro disposizione che si gioca la sfida della credibilità dello strumento.
E, soprattutto, sa che se davvero si vuole puntare sul redditometro - o più in generale sull'accertamento induttivo - per combattere l'evasione di massa è necessario fare un salto di qualità. Lo si deve cioè trasformare in un congegno trasparente, senza incertezze né sui beni e sui servizi da monitorare né sui criteri che devono portare alla determinazione statistica del reddito "coerente" con un certo tenore di vita.
Ricordando che tutti i sistemi basati su automatismi (in questo caso, l'emanazione immediata di un atto di accertamento) rischiano di produrre più danni che benefici, se gestiti in modo grossolano. Perché finiscono per limitare il diritto di difesa del contribuente e per far crescere la percezione del fisco come un nemico da sconfiggere. O, alla meglio, dal quale scappare.