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INTERVENTO / Un regalo ai sindacati contro il libero scambio

di Charles Freeman *

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15 Settembre 2009

Nei primi tempi da presidente, George W. Bush sfruttò alcune prescrizioni della normativa sugli scambi commerciali per imporre nuovi dazi sull'import di acciaio. La misura, poi dichiarata illegale dalla Wto, era un tentativo calcolato e piuttosto cinico di ammorbidire i sindacati nei confronti della politica di apertura dei mercati. Ma quella mossa non bastò a placare i lavoratori, in particolare gli operai siderurgici, che si batterono energicamente contro ogni nuovo accordo commerciale.
Nel corso della campagna per la presidenza, Barack Obama ha usato parole forti sul commercio internazionale, specialmente nei confronti della Cina, e ha promesso di difendere i lavoratori americani dalle pratiche commerciali scorrette adottate dagli altri paesi. Nel contempo il suo staff rassicurava con discrezione sul fatto che il futuro presidente era un convinto sostenitore dell'apertura dei mercati e della liberalizzazione degli scambi.
Come la mettiamo allora con la decisione di imporre nuovi dazi sugli pneumatici importati dalla Cina?
La dura retorica della campagna elettorale è in gran parte evaporata nel corso dei primi otto mesi di Obama alla Casa Bianca, per lasciare il posto a gradite rassicurazioni sull'importanza di combattere il protezionismo nel pieno della crisi economica. Periodicamente, Obama rispolvera il cadavere putrescente del Doha Round impegnandosi a condurlo a buon fine. Ogni tanto spende parole di incoraggiamento per il buon esito degli accordi di libero scambio ancora in sospeso con Panama, Colombia e Corea del Sud. Nonostante il mutamento di tono, però, l'agenda della liberalizzazione degli scambi è in pieno stallo, ostaggio in larga misura degli impegni assunti da Obama in campagna elettorale con i suoi alleati sindacali e di altre priorità politiche.
Peccato. Il suo impegno in favore del multilateralismo e la sua accattivante umiltà hanno contribuito molto a convincere gli altri paesi che il presidente è determinato a ricostruire la leadership americana. Le sue parole sono piuttosto rassicuranti, ma il mondo (e in particolare i paesi in via di sviluppo) starà a guardare attentamente quello che il presidente farà (e non farà) in materia di scambi internazionali.
La prima decisione importante della Casa Bianca in questo ambito, appunto l'imposizione di nuovi dazi sulle importazioni di pneumatici dalla Cina, non è particolarmente incoraggiante. Certo, la Cina non è un angioletto quando si tratta di commercio internazionale. Come in qualsiasi altro campo, la politica interna complica le scelte economiche di Pechino e mette a dura prova gli sforzi dei negoziatori internazionali per garantire condizioni eque e paritarie negli scambi. Ma questa iniziativa, attraverso una procedura vista come il fumo negli occhi a Pechino perché considerata particolarmente discriminatoria nei confronti della Cina, non è una semplice tirata d'orecchi per le malefatte quotidiane del Celeste Impero. È una decisione che offre il destro a quegli interessi nazionalistici, diffusi in Cina, che non si limiteranno a chiedere di rendere pan per focaccia agli Stati Uniti, ma rafforzeranno la più generale tendenza ostile alle riforme che hanno aperto il mercato. Il risultato potrebbe essere una lunga battaglia di rappresaglie e controrappresaglie commerciali tra Washington e Pechino che, considerata l'importanza per i commerci globali degli scambi tra i due paesi, farebbe felici in tutto il mondo solo gli interessi più miopi.
I liberoscambisti più indulgenti potrebbero sostenere che per il presidente è stata una scelta obbligata quella di concedere ai sindacati una prima vittoria. Indubbiamente non è facile trovare un senso economico a questa decisione. Il settore ha molti altri mercati oltre a quello cinese cui rivolgersi per importare pneumatici a prezzi più competitivi di quelli americani, a meno che la nostra industria non venga sottoposta a una ristrutturazione generalizzata. Possiamo anche importare meno pneumatici dalla Cina, ma questo non basterà certo a rilanciare la moribonda produzione nazionale. È protezionismo senza protezione. Una pura e semplice politica di appeasement: cinica e calcolata.
Ma non sarà tanto facile accontentare i sindacati. Obama spera che questa decisione gli dia un certo spazio politico. Forse scoprirà invece di essersi complicato la vita in patria, risvegliando le fantasie protezionistiche di una marea di altri settori industriali, e di aver fatto piazza pulita delle speranze dei paesi in via di sviluppo.

* L'autore è titolare della cattedra Freeman per gli studi sulla Cina presso il Center for Strategic and International Studies di Washington. È stato vicerappresentante commerciale del governo per la Cina tra il 2002 e il 2005.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

15 Settembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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