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I modelli? Non sono la sfera di cristallo

di Riccardo Sorrentino

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16 aprile 2010

Una disfatta totale. L'econometria, la raffinata tecnica statistica usata per formulare previsioni, è uscita a pezzi dalla crisi: a lanciare l'allarme sono stati quei pochi studiosi che guardavano la realtà con lenti diverse.

La sconfitta non viene negata da nessuno. «È stata azzerata la situazione - ammette Carlo Favero, docente di Econometria finanziaria alla Bocconi - I modelli che definivano l'intervento ottimale in politica economica, fino a due anni fa, escludevano il settore finanziario. È stata una grande mancanza. La crisi è stata generata in un punto del meccanismo di trasmissione della politica monetaria che non era contemplato». L'errore sarebbe quindi "di omissione". La tecnica funziona - aggiunge Favero - e lo mostra l'econometria finanziaria, sopravvissuta con meno ferite di quanto si pensi: resta in grado di prevedere la volatilità e, su un orizzonte di cinque anni, i rendimenti. Occorre comunque una lenta ricostruzione della disciplina. Nelle Banche centrali si testano oggi sistemi di previsione che includono anche il settore immobiliare e il credito. E magari anche il denaro: alcuni dei più recenti modelli empirici destinati a definire la politica monetaria non contemplano infatti la moneta. Per certi versi è fatto così anche lo "Smets-Wouters" usato, con altri, dalla Bce. Questa curiosa caratteristica - paradosso nel paradosso - è stata introdotta dai new keynesians, malgrado l'attenzione che il lontano maestro dedicava al denaro.

È stata però la stessa scuola che, alla fiducia in questi "suoi" modelli, ha alternato il timore della hubrys, la presunzione. Gli economisti di questo orientamento, scrisse già nel 2006 uno di loro, l'ex governatore Fed Frederic Miskhin, sono «inclini a diventare ingegneri economici» ma i loro sforzi di guidare l'economia si sono rivelati vani: la loro ricerca «non è molto usata nella definizione pratica della politica monetaria». A queste parole seguì la piccata difesa dei modelli econometrici da parte di Michael Woodford della Columbia University - il padre dei Dynamic Stochastic General Equilibrium (Dsge) Models - che pure riconobbe la necessità di essere «umili».

Quel dibattito, che precedeva la crisi, è oggi anche più attuale. «Non bisogna chiedere troppo allo strumento statistico», avverte Riccardo Puglisi che ha insegnato Metodi statistici al Mit di Boston: «Molto dipende dalla "bellezza" dei dati a disposizione, da quanto somiglino a quelli di un ideale esperimento di laboratorio». A volte accade invece che essi «vengano torturati per avere una "correlazione significativa"»; ma, anche quando è solido, questo nesso tra due fenomeni non sempre rivela un rapporto causa-effetto: alcuni studiosi, per gioco, hanno legato l'inflazione alla temperatura di Londra, o i rialzi di Wall Street alle vittorie di questa o quella squadra di rugby...

Qualcuno chiede allora all'econometria qualcosa in più di un bagno di umiltà, e le negano efficacia. Il primo tra gli scettici fu lo stesso John Maynard Keynes che, attento al tema dell'incertezza, contestò la validità delle tecniche econometriche di Jan Tinbergen, il primo premio Nobel. A mantenere vive queste critiche oggi è Paul Davidson: il custode dell'ortodossia keynesiana contesta l'"assioma di ergodicità", l'idea - semplificando - che un evento, per esempio un rialzo di Wall Street del 4%, abbia in futuro la stessa frequenza del passato. Portata all'estremo, quest'idea spingerebbe a rinunciare davvero all'econometria. Anche i post-keynesiani "eretici" cominciano però ad apprezzare queste tecniche. «Se l'economia ortodossa - dice Gennaro Zezza dell'Università di Cassino, che elabora analisi per il Levy Institute - crede che il comportamento individuale sia valido in qualunque orizzonte temporale, anche molto lungo, noi pensiamo che in un contesto sociale specifico si possano trovare regolarità empiriche». L'approccio del Levy Institute, ispirandosi a Willie Godley, aggiunge poi all'analisi anche l'esame delle identità contabili (per esempio la corrispondenza tra debiti e crediti): «In questo modo possiamo fare previsioni, anche se non scenari».

L'incertezza passa di nuovo in secondo piano, però. «Non si può storcere il naso - dice Zezza - l'alternativa è quella di rinunciare a dire qualcosa sul futuro scientificamente o politicamente rilevante». Era successa la stessa cosa agli economisti Usa quando recepirono Keynes: anche a loro l'incertezza non piaceva, ha raccontato il Nobel Edmund Phelps, e l'hanno un po' evitata. Il modello nascosto dell'econometria è diventata allora la meteorologia, in cui a ogni possibile evento corrisponde una precisa probabilità.

L'incertezza non ammette però di essere elusa. Allora va forse raffreddata l'enfasi sulle previsioni, introdotta come un banco di prova della validità delle teorie economiche dal padre del monetarismo Milton Friedman. «Crisi profonde come quelle che abbiamo vissuto sono instrinsecamente imprevedibili - spiega Ricardo Caballero del Mit - C'è troppa "pretesa di conoscenza": economisti e banchieri centrali operano come se potessimo capire e controllare cosa accade all'economia reale. È pericoloso. Dobbiamo riconoscere che possono emergere sorprese davvero spiacevoli perché il mondo è molto complesso e i modelli non sono neanche vicini a catturare questa complessità». Il corollario è immediato: anche le politiche devono essere orientate a gestire le sorprese e il panico che generano. È un mondo in gran parte da reinventare.

16 aprile 2010
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