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SVILUPPO POSSIBILE RITORNARE A CRESCERE / Il prezzo dell'Italia terziaria

di Giuseppe Berta

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16 aprile 2010

È un peccato che il rilancio del vecchio tormentone sull'Italia "paese in declino" minacci di spegnere una discussione ricca di spunti originali. Perché le domande sulla crescita italiana sollevate da Giorgio Barba Navaretti e Guido Tabellini e le argomentazioni di segno contrario introdotte da Marco Fortis hanno messo in luce visioni differenti dello sviluppo italiano, che hanno avuto modo di confrontarsi a Parma, dove è apparso chiaro che la lettura e l'interpretazione delle tendenze economiche offerte da Luca Paolazzi divergono non poco da quelle cui invece si sono riferiti il ministro dell'Economia e il presidente del consiglio nei loro interventi.

Prima sulle pagine del Sole 24 Ore e poi nelle assise di Confindustria si sono poste a raffronto visioni differenti. Da una parte, l'immagine di un paese la cui crescita è frenata da gravami e impedimenti che attendono di essere rimossi per una ripartenza effettiva; dall'altra, quella di una nazione che mantiene una solidità di fondo, grazie anche all'esistenza di un forte sostrato manifatturiero, capace di notevole dinamismo. In entrambi i casi, il giudizio sulla crisi e le sue conseguenze rimanda al periodo precedente, un arco di oltre dieci anni che viene valutato o come la lunga incubazione di un malessere che si esprime attraverso gli indicatori di una crescita troppo debole o come un passaggio di adattamento dinamico del sistema delle imprese e delle sue punte migliori (le aziende di medie dimensioni).

Ciò che accomuna i due punti di vista è il loro concentrarsi sull'industria, sulle imprese manifatturiere, come se lì stesse la chiave di volta della crescita. Eppure, la fase che va dalla metà degli anni 90 alla crisi si è svolta all'insegna di un processo di terziarizzazione che ha investito le regioni storiche dell'industrializzazione italiana. Negli anni compresi tra il 1995 e il 2008 il peso dell'attività industriale decresce non solo in una regione come la Lombardia (in cui l'incidenza dell'industria sul valore aggiunto totale scende dal 38,4 al 33,1%) ma anche nel Veneto, dove passa dal 38,2% al 35,1. Per non parlare del Piemonte, dove da un secolo esiste una concentrazione di grande impresa: lì l'incidenza dell'industria scende addirittura dal 36,9 al 30,2% (mentre quella dei servizi passa dal 60,3 al 68,3%).

Proprio il Piemonte, la regione mossa a lungo da un cuore industriale, risulta emblematico per capire quel che va succedendo nella base economica e sociale in un quindicennio di trasformazione. La regione subalpina, infatti, è quella che cresce meno: il valore aggiunto aumenta tra il 1995 e il 2008 solo del 57,1%, un risultato nettamente inferiore a quelli di Lombardia (+64,1%) e Veneto (+69,5%). Come spiegarlo?

Probabilmente con le modalità dal passaggio alla service economy. Il vasto arcipelago del terziario riesce a compensare il rapido snellimento che subisce l'organizzazione industriale, sempre più depurata dei caratteri della produzione di massa e dell'insediamento fordista, ma sostituendo i posti di lavoro nelle fabbriche con occupazioni ancora meno qualificate. Mentre l'industria muta pelle e sposta i suoi confini, l'universo dei servizi tampona, sì, le falle occupazionali, ma con attività a produttività bassa e bassissima, entro confini solo locali, al di fuori di ogni reale benchmarking concorrenziale. La ripercussione sulla capacità di crescita è così destinata a farsi presto sentire, come testimoniano i dati relativi alle esportazioni (non a caso la quota del Piemonte sul totale dell'export italiano scende in meno di 15 anni dal 13,7 al 10,2%).

È nel passaggio del testimone dall'industria ai servizi che emergono le fragilità dell'economia italiana. Nel mondo frastagliato del terziario, le strutture d'impresa sono deboli e spesso labili, il ricorso alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione estremamente carente, molto modesta la qualità del capitale umano. Per giunta, questa transizione si verifica all'interno di un quadro demografico stagnante, dove il prolungamento della vita media della popolazione si traduce in una domanda d'assistenza alle persone effettuata secondo modalità largamente informali, senza che vi sia, dall'altro lato, uno sviluppo importante dei livelli d'istruzione.
La crescita italiana è rimasta largamente impigliata nella densa e diffusa "mucillagine" del terziario (come dice De Rita), una realtà che torna ancora scarsamente nelle nostre analisi e nella nostra stessa visione dello sviluppo italiano.

Anzi, si potrebbe giungere a sostenere che un elemento di ritardo della nostra crescita sia costituito proprio dalla mancanza di una visione di lungo periodo dello sviluppo del paese, capace di restituire significato e ruolo all'azione degli operatori economici. Quando il "miracolo economico" era appena agli albori, alla metà degli anni 50, un grande valtellinese di quell'epoca, il ministro del Bilancio Ezio Vanoni, presentando il suo Schema di sviluppo in Parlamento, preconizzava già la necessità di guardare avanti al momento in cui l'espansione industriale avrebbe ceduto il passo a quella del terziario. È anche di una simile ampiezza di sguardo e capacità di anticipazione che avrebbe bisogno l'Italia di oggi.

16 aprile 2010
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