Ottimismo e scetticismo possono convivere anche nell'"arido" cuore di un brillante economista econometrico, uno dei più citati a livello mondiale, abituato a gestire essenzialmente numeri. Sulle gambe dei quali camminano poi le idee. Per Daron Acemoglu, 42 anni e da nove full professor al Mit di Boston, l'ottimismo sta nel fatto che l'economia americana si muove, su vari indicatori importanti, dai consumi alla produzione, e molti segnali indicano ripresa. Lo scetticismo sta nel fatto che, data la portata della crisi del 2008, nessuno può garantire che si tratti di una ripresa duratura e non invece, come avvenne negli anni 30, di un risveglio destinato a ridimensionarsi in poco tempo.
«Dimenticando le basi istituzionali dei mercati, abbiamo in passato creato un'equazione del tutto sbagliata tra libero mercato e mercato non regolato», dice Acemoglu, un turco-americano di origine armena, con studi in Turchia e Gran Bretagna e una tesi di PhD, elogiatissima, che gli aprì le porte del Mit nel '93, a 26 anni. Nel 2005 riceveva la John Bates Clark Medal, il Nobel dei giovani economisti. Acemoglu si dedica soprattutto a studiare i rapporti tra economia e istituzioni, un campo vastissimo ora che le istituzioni, e le loro regole o non regole, hanno così platealmente tradito l'economia. Di questo ha parlato in una conferenza organizzata a Milano dalla Fondazione Mattei.
«Il nodo è che da un lato l'economia è in ripresa, dall'altro continuano a imperversare fattori di rischio molto grossi, basti citare l'immobiliare e milioni di famiglie con un mutuo ormai più alto del valore della casa, sempre meno quindi incentivate a pagarlo. Potrebbe essere una bomba a orologeria», ha spiegato Acemoglu in un'intervista al Sole 24 Ore.
Acemoglu dà un giudizio più positivo che negativo della risposta data dall'amministrazione Obama alla crisi, e dice che l'accoppiata Bernanke-Summers, il presidente della Fed e lo stratega economico di Obama, ispira fiducia: «Credo siano le persone giuste». Ma vede due falle pericolose: la gestione del capitolo immobiliare e le nuove regole finanziarie in elaborazione al Congresso, e che non cambiano molto.
«Bisogna aiutare di più le famiglie a restare nelle case acquistate con il mutuo» dice Acemoglu che è a favore di una misura, il cosiddetto cramdown, ripetutamente presentata e bocciata in Congresso e a cui Obama si era detto favorevole in campagna elettorale e all'inizio della sua amministrazione. Cramdown, letteralmente ingozzare, indica il potere dato ai giudici fallimentari di rivedere i termini di un mutuo, cifra, durata e rate, per renderlo meno oneroso e più rapportato ai nuovi, crollati, prezzi immobiliari, facendo "ingerire" il tutto alle banche.
Sulle nuove regole finanziarie si è poi scelto, sostanzialmente, un ritorno allo statu quo. Obama e Geithner hanno presentato a giugno le loro proposte, che su due punti centrali erano chiare: protezione pubblica agli istituti sistemici, in grado cioè di mettere in crisi il sistema in caso di fallimento, e un regime più severo ma con importanti scappatoie per i derivati. La Camera ha ripreso il progetto e lo ha votato l'11 dicembre, il Senato ci sta ancora lavorando. Ma è certo ormai che l'impostazione generale – protezione assicurata e ritorno alla grande un po' meno facile, ma consentito, dei derivati – non cambia.
«Non c'è nulla di male se i derivati ritornano presto a un valore nozionale, di contratti cioè non certo del sottostante cui si riferiscono, di 600mila miliardi di dollari, come avevano allo scoppio della crisi – dice Acemoglu -. Il problema è di chi controlla questo mercato, oggi molto più concentrato in poche mani di due anni fa quando le mani erano già poche. E soprattutto dell'impegno esplicito, più esplicito di prima, a salvare chi eventualmente in questo mercato o altrove sbaglia, ed essendo salvato non paga».
Il nodo centrale è quindi quello del Tbtf (Too big to fail) di banche e finanziarie troppo grandi per fallire, e che quindi devono essere salvate. «Esplicitare questo principio significa dare una grande copertura al management. Secondo me un errore. Bisognerebbe infatti mettere su basi più chiare e sicure tre aspetti, il ruolo dei manager, il ruolo dei creditori di una banca, ad eccezione ovviamente dei creditori-depositanti che vanno protetti entro certi limiti, e il ruolo della politica monetaria, che non può più in futuro estendersi a fisarmonica per salvare il sistema».
Non è il lobbismo classico, fatto di finanziamenti elettorali, a dare a Wall Street la forza per ottenere una legislazione favorevole. È un lobbismo di idee, «il fatto che data la complessità tecnica della cosa tutto o quasi avviene in un circuito chiuso, fra addetti ai lavori. Chi se non uno specialista può disquisire sui derivati? E così il sistema si perpetua».
Di fronte al Tbtf, che poi è il nodo centrale, esistono secondo Acemoglu quattro possibili risposte. Abbandonare le attuali procedure di fallimento pilotato a salvaguardia dei depositanti, affidate dalla Fdic (Federal deposit insurance corporation): «Ma sarebbe folle». Reintrodurre una versione rigida del Glass Steagall Act, abolito nel '99, che separava la raccolta del risparmio dal proprietary trading e altre attività da banca d'affari: «Possibile, ma su vari fronti complicato». Poi c'è lo statu quo, che ricrea di fatto la situazione precedente ma con un mercato molto più concentrato, perché la crisi ha eliminato per fallimenti, acquisizioni o fusioni una buona metà dei grandi protagonisti che sono diventati una mezza dozzina. E con la mano pubblica che garantisce. E infine c'è il trust busting: «Un ritorno a Roosevelt, non solo Franklin ma anche Theodore, che avviò la spartizione dei grandi trust».
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