Sull'immigrazione la politica italiana continua a scherzare col fuoco. A fronte di un fenomeno complicato ed in veloce, sistematica evoluzione, le sue dispute interne sembrano condannarla al lavoro di Sisifo. Ricomincia sempre da capo. Come se tempo e memoria non fossero vincoli ma banali optional dai quali si può prescindere senza pagare pegno. Prendiamo, ad esempio, la questione relativa alla creazione di un ministero ad hoc dell'immigrazione e quella del diritto di voto agli stranieri.
Partiamo dal primo. L'onorevole Briguglio, parlamentare di maggioranza, ha sostenuto la necessità di un cambiamento grazie all'istituzione di un nuovo dicastero dell'immigrazione con l'attribuzione delle relative deleghe oggi in capo al ministero degli Interni. In sé niente di male. Salvo spacciarla come una novità. Sono passati vent'anni da quando, all'atto della conversione in legge del decreto Martelli del 1989, il problema fu posto per la prima volta senza però, da allora, essere mai stato risolto. Un tempo addirittura siderale se si considera che all'epoca gli immigrati in Italia erano poche centinaia di migliaia e non gli oltre 4 milioni di oggi. Ed Internet ancora non esisteva. Con l'aggravante di obbligare l'amministrazione ad un ennesimo, costoso trasloco di uomini, mezzi e competenze a pochi mesi da quello fatto - ma nella direzione opposta - dalla compagine governativa di centrosinistra, che ha trasferito la responsabilità dell'immigrazione dal Welfare al Viminale.
Stesso discorso per quanto riguarda il diritto di voto. Che è tanto auspicabile quanto ineluttabile. Ma il problema non è questo. Il punto è che non riusciamo a darci ragione di un'amnesia che appare inspiegabile. Come non ricordare, infatti, che nel 1998, all'atto del voto sulla legge Turco-Napolitano, l'opposizione aveva scambiato la sua rinuncia al filibustering parlamentare con lo stralcio, da parte del governo, dell'articolo relativo al diritto di voto amministrativo per gli immigrati. L'intesa era che se ne sarebbe discusso un minuto dopo il varo, poi avvenuto, della norma sul voto degli italiani all'estero. Perché non tenere conto di quanto già fatto in Parlamento? Il tema delle partecipazione elettorale amministrativa degli stranieri era tra l'altro già contenuto nella Convenzione di Strasburgo del 1994 firmata dall'Italia, con l'eccezione di questo punto specifico. Basterebbe, come è già avvenuto per tutti gli altri capitoli di quella Convenzione, decidersi a recepire anche questo suo ultimo capitolo nel nostro ordinamento interno.
Sull'immigrazione l'Italia vive, e non da oggi, in una sorta di permanente stato febbrile che cerca di curare sfornando provvedimenti di legge come nessun altro al mondo. Basta leggere per credere: 1986, legge n.943; 1989, legge Martelli; 1992, legge Boniver; 1993, legge Conso; 1993, decreto legge sul lavoro stagionale; 1996, legge Dini; 1998, legge Turco-Napolitano; 2001, legge Bossi-Fini. Last but not least il provvedimento sull'ordine pubblico con l'introduzione del reato di clandestinità.
Tutto si fa ad horas. La ragione? Che nessuno ha ancora trovato il coraggio e la lungimiranza di dire basta al suo uso improprio come arma per regolare i conti politici. Con i nemici e con gli amici.