Il linguaggio della politica italiana è ammalato e non da oggi. Si tratta di un problema serio perché noi siamo il nostro linguaggio (verbale, corporeo, visivo) con il quale comunichiamo i pensieri e quindi le intenzioni del nostro agire.
Si dice che il dittatore Francisco Franco amasse ripetere: «Si è padroni dei propri silenzi e schiavi delle proprie parole». In effetti, le parole sono importanti, ci servono per dire il mondo e rappresentarlo, ma «chi parla male, pensa male» urlava Nanni Moretti contro la vittima di turno delle sue nevrosi postmoderne. Per una volta hanno ragione entrambi, il dittatore e l'intellettuale.
In Italia da troppo tempo, anche quando si rivestono incarichi di responsabilità politica e istituzionale, si parla tanto e male e ci si rende schiavi delle proprie parole in modo irresponsabile. Si avverte la diffusa mancanza di un ordine del discorso intessuto da legami logici e valoriali condivisi. Per fortuna a Milano - per fortuna anzitutto di Berlusconi e poi del nostro paese - a colpire è stato uno psicolabile isolato con il suo disordine costitutivo; eppure, nonostante ciò (o forse proprio per questa ragione) non riusciamo a tenere testa a quest'avvenimento e a metabolizzarlo con il dovuto equilibrio e senso di responsabilità, come anche il dibattito di ieri alla Camera ha dimostrato.
Il disordine del linguaggio pubblico riguarda entrambi gli schieramenti e dunque la qualità della politica nel suo insieme. E non lo si dice per gusto dell'equidistanza, ma perché purtroppo è così: in tanti, in troppi, sembrano avere esaurito la riserva di linguaggio utile a tenere insieme un paese offeso. Il binomio principale che ha prodotto quest'effetto è quello fra personalizzazione della politica e populismo del messaggio. Lo rivelano, fra l'altro, le dichiarazioni di questi giorni di Antonio Di Pietro e Umberto Bossi e dei loro seguaci: i due populismi, nei momenti di difficoltà, si danno la mano e marciano paralleli.
Le parole sono pietre e dunque bisogna smettere di usarle con leggerezza o malizia perché quando arrivano al bersaglio fanno male: l'irresponsabilità di Di Pietro è stata abbondantemente censurata come era giusto che fosse, quella di Bossi, invece, è passata sotto silenzio perché nei momenti di crisi lo squilibrio informativo, soprattutto nel settore televisivo, appare in tutta la sua palmare evidenza.
Il senatùr ha dichiarato che l'episodio di Milano è un atto terroristico e ha dato il "la" al coro di quanti hanno evocato il demone degli anni Settanta come tanti apprendisti stregoni. In questo modo si sceglie di soffiare sulla fiamma della violenza e di usare le parole per attizzare nuove tensioni; oppure non si sa di cosa si sta parlando e si pronunciano frasi in libertà. Il risultato è comunque lo stesso giacché un uso violento o irresponsabile del linguaggio ha sempre effetti deleteri sul piano della convivenza civile. Allo stesso modo si comportano quanti sostengono che Berlusconi sia un nuovo Mussolini evocando subliminalmente o no lo spettro di piazzale Loreto.
In realtà, il linguaggio italiano è ferito da tempo, anzi la cosiddetta seconda Repubblica è nata senza parole. L'anomalia si costruisce ai tempi di Mani pulite con il predominio del discorso giudiziario che invade il linguaggio pubblico, non per responsabilità dei magistrati, i quali, come suol dirsi, «parlano con le loro sentenze», ma con l'uso che una politica debole e svuotata di senso fa dei loro atti giudiziari. Chi ha dimenticato i cappi leghisti sventolati in un'aula parlamentare? Come non ricordare il lancio delle monetine contro Bettino Craxi, l'atto d'inizio della lunga stagione della furia anticasta e delle ingannevoli sirene dell'antipolitica, che avrebbero inevitabilmente spianato la strada alla vittoria culturale delle destre?
A ben guardare, non ha davvero senso chiedersi chi e quando ha cominciato a intorbidire l'acqua perché la democrazia non è una favola di Esopo. Saggezza e amore patrio vorrebbero che ci fosse una smilitarizzazione del linguaggio bilaterale e progressiva, seguendo gli ammonimenti del presidente della Repubblica e di quanti hanno mantenuto una sufficiente riserva di responsabilità. Parlare di «violenza costituzionale», evocando una regia come fa il quotidiano della famiglia Berlusconi, dare del «terrorista mediatico» in parlamento a un giornalista o strumentalizzare a fini elettorali questo atto esecrabile - in modo opportuno inquadrato nelle sue reali dimensioni dalle parole di Gianni Letta - con l'obiettivo di colpevolizzare l'opposizione è un tentativo destinato a fallire, ma che contribuirà ad avvelenare vieppiù il clima e a radicalizzare le posizioni. La storia, con le sue lezioni, non ha insegnato nulla? Ogni momento è buono per dimostrare di essere migliori. Se non ora, quando?
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