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Di fronte a una catastrofe tanto immane, i leader, ad Haiti e all'estero, in generale hanno trovato il giusto equilibrio fra parole e azione. Il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ha sbloccato 10 milioni di dollari di fondi di emergenza. Il presidente americano Barack Obama ha lamentato quella che ha definito una tragedia «particolarmente crudele e incomprensibile», e il segretario di Stato Hillary Clinton ha dichiarato: «Ha proporzioni bibliche la tragedia che continua a perseguitare Haiti e il popolo haitiano»; contemporaneamente, il Governo Usa ha approntato unità di soccorso, navi ospedale e forze militari per assistere il Paese caraibico in questo momento di crisi. La Banca mondiale ha annunciato lo stanziamento di 100 milioni di dollari di fondi di emergenza, e la Banca interamericana per lo sviluppo ha in programma di dirottare verso Haiti fondi per 90 milioni di dollari. I comuni cittadini in America hanno messo mano al portafogli e hanno donato altri milioni di dollari attraverso le organizzazioni di aiuto internazionali.
Questo impulso umanitario è lodevole, e ogni sforzo dev'essere diretto a salvare quelle vite che possono essere salvate, ad aiutare gli haitiani a superare lo shock, il lutto e la perdita e a far risollevare in qualche modo il Paese. Eppure, anche in questa prima e fondamentale fase si possono intravedere interrogativi scomodi, che permarranno a lungo dopo che quest'ultimo sforzo per aiutare Haiti a riprendersi dalla catastrofe avrà smesso di fare notizia. Come può la comunità internazionale ricostruire un Paese che era in pezzi già molto prima dell'arrivo del terremoto? E che cosa succederà quando scopriremo che, nonostante i nostri migliori sforzi, la soluzione al problema di Haiti continua a rimanere inafferrabile?
(Traduzione di Gaia Seller)