Sono gli immigrati che sfidano i governi o i governi gli immigrati? Una domanda che nasce spontanea dopo i fatti di Rosarno e visto che le quotidiane, perentorie dichiarazioni degli esecutivi di mezzo mondo non riescono nell'intento voluto: controllare per decreto i flussi degli arrivi e delle partenze. Sia regolari che irregolari. Una verità che è ormai sotto gli occhi di tutti e di recente confermata dal caso Irlanda. In pochi mesi, invertendo un trend ultradecennale, il paese si è trasformato da importatore ad esportatore netto di forza lavoro.
I flussi migratori originano da un complesso ordine di fattori. Il primo è il mercato. Sono figli della domanda che non trova soddisfazione nell'offerta e, in termini relativi, delle divergenti aspettative economiche e di status tra mondo del lavoro dei paesi più ricchi e di quelli più arretrati. Sotto molti punti di vista i flussi migratori seguono regole non difformi da quelle delle merci. Infatti, come ama ricordare Alejandro Portes ai suoi studenti di Harvard, gli immigrati non vengono solo perché lo vogliono ma perché li vogliono. Il punto è decisivo.
L'immigrazione segue la logica del mercato. Per questo è difficile controllarla solo con divieti e contingentamenti amministrativi. Va governata, non proibita. Un errore reso ancora più grave dalla crescente asimmetria tra la sua dimensione globale e la frammentazione nazionale delle politiche sugli ingressi e le frontiere spettanti ai singoli governi. L'immigrazione è globale ma le politiche sono locali. E mentre ciascuno difende le quote di stato, è il mercato che, silenziosamente, impone al sistema le sue ferree leggi. E la crescente domanda di lavoro straniero da parte di imprese e famiglie viene in gran parte soddisfatta dall'onnipresente mercato just in time della clandestinità.
Una situazione paradossale che, però, non è figlia del caso. Ma di decisioni prese dalla comunità internazionale anni addietro. Nel decennio 1960-1970, in parallelo all'abbattimento di dazi e vecchi balzelli ed al varo di nuove regole globali sul commercio internazionale, le nazioni più industrializzate imposero alle frontiere – cosa mai avvenuta fino a quel momento – clausole di forte protezionismo all'ingresso dei lavoratori stranieri. Regole globali per capitali, beni e servizi ma non per il lavoro.
Un vero e proprio controsenso economico. Non solo perché non è possibile limitare, oltre un certo limite, la spinta alla globalizzazione solo ad alcune e non a tutte le componenti del mercato. Ma soprattutto perché è proprio la liberalizzazione delle tariffe e dei balzelli nazionali sulle merci ed i capitali che aumenta la necessità di regolare su scala meta-nazionale l'offerta dell'unica merce di cui i paesi poveri dispongono in abbondanza: il lavoro. Al riguardo servirebbe in realtà una sorta di Gatt per l'immigrazione.
Il mondo è cambiato visto che, sottolinea Jack A. Golstone sull'ultimo numero di Foreign Affairs: «Mai dall'800 era accaduto che non fossero Usa, Canada ed Europa a generare la quota maggiore del prodotto lordo globale… Le strategie politiche ed economiche del XX secolo sono ormai obsolete ed è ormai venuto il tempo di pensarne di nuove». Anche se con gli occhi di oggi può apparire irrealistico e financo utopistico, c'è dunque da scommettere che, prima o poi, anche per governare l'immigrazione, come per gli altri fattori della produzione, sarà d'obbligo abbandonare l'attuale logica nazional-protezionistica e creare un sistema di regole ed istituzioni globali.