Riforme, riforme. Tutti le chiedono, ma... prima ancora di pensarle, le riforme, dovremmo realizzare la «precondizione di merito». Qualcosa di molto forte, se si guarda alla nostra storia, alle origini e all'attuazione della Costituzione.
Dunque, l'Italia ha perso 5,1 punti percentuali di Pil nel 2009 e 1,3 punti nel 2008, totale 6,4, che per il biennio della grande crisi significa una perdita cumulata di ricchezza di 3,5 punti maggiore di quella registrata in media nell'area Ocse. Si è chiesto qualche giorno fa Salvatore Rossi, direttore della Ricerca economica di Bankitalia, in un brillante intervento: come mai un'infezione meno virulenta determina in Italia una febbre più alta?
La risposta sta nel fatto che l'Italia è giunta all'appuntamento di una crisi che tutto il mondo ha importato dagli Stati Uniti in condizioni relativamente più debilitate. Vorrà dire qualcosa il dato che il nostro paese, tra il 1992 e il 2007 ha perso 15 punti di Pil rispetto alla media Ue.
La questione cruciale, secondo l'analisi di Rossi, è quella della produttività declinante, e non certo da oggi. L'economia italiana, tra la crisi interna del 1992-93 e quella esterna del 2007-08, ha tentato due rincorse. La prima (riuscita) per agguantare l'euro, ancorché il successo sia stato oscurato da «due ombre»: il baratro che occorreva colmare per rientrare nei parametri di Maastricht si era aperto per scelte «assai colpevoli» che la politica economica aveva compiuto nel ventennio precedente; inoltre, «i metodi sbrigativi» con cui la rincorsa è stata fatta (alzando la pressione fiscale di 2,2 punti e facendo ricorso a misure una tantum) ha finito col rappresentare uno degli handicap che hanno frenato la seconda rincorsa. Quella della ristrutturazione per adeguarsi alla rivoluzione tecnologica e alla globalizzazione, dove l'economia italiana ha tardato e faticato più di altre.
Potevano fare in questo caso di più gli imprenditori, magari pensando un po' meno agli assetti di controllo societario? Sì, ma del resto essi non vivono nel vuoto pneumatico. E dunque torniamo alla politica economica e alle famose riforme di struttura: per accrescere la concorrenza; per riscrivere il sistema di welfare troppo sbilanciato a favore delle pensioni; per insistere nel riassetto dell'istruzione; per la certezza del diritto; per il Sud, senza più incentivi diretti; per il lancio di grandi infrastrutture.
Ma nulla di questo può avere successo, spiega Rossi, se non si risolve il problema di fondo, cioè la «precondizione di merito». Che vuol dire «la rifondazione delle basi dell'ordinamento giuridico» ponendovi al centro il concetto d'efficienza, cioè la commisurazione dei costi ai benefici, entrambi da valutare considerando l'amministrazione della giustizia, e più in generale della cosa pubblica, un servizio alla collettività. Da una tale «operazione culturale», conclude Rossi, può nascere più agevolmente l'altra «araba fenice» del nostro paese: il dimagrimento e l'aumento di efficacia e di produttività delle istituzioni e amministrazioni pubbliche. Operazione culturale? Chiamiamola con il suo vero nome: una rivoluzione modernizzatrice. Probabilmente non "condivisa", come tutte le rivoluzioni vere, ma non per questo meno utile e attesa.