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GIUSTIZIA / Una forzatura che ci allontana da Strasburgo

di Marina Castellaneta

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16 Novembre 2009

L'impianto del disegno di legge per combattere la durata eccessiva dei processi rischia di aprire nuovi fronti davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Anche per le modifiche al meccanismo della legge Pinto, che ha introdotto in Italia il diritto all'equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo. A ben guardare, infatti, il Ddl che, almeno nella volontà del legislatore, dovrebbe realizzare il principio della durata ragionevole dei processi, si allontana da Strasburgo. Almeno per cinque motivi. In primo luogo, perché la proposta introduce una presunzione sui tempi considerati ragionevoli, senza una valutazione caso per caso ispirata ai criteri della Corte europea. Poi, perché non considera la fase di esecuzione della sentenza nella durata del procedimento; non prevede tempi più rapidi nei casi ritenuti prioritari dalla Corte europea; perché inserisce la riduzione di un quarto nell'indennizzo se il procedimento si è chiuso con il rigetto delle istanze del ricorrente e perché non introduce aggiustamenti in grado di garantire che le somme dovute alla vittima di processi troppo lunghi siano liquidate in tempi ragionevoli.
Per quanto riguarda il primo punto, la proposta di modifica alla legge Pinto fissa un nuovo principio: solo il processo che dura oltre 6 anni, con la possibilità di aggiungere un altro anno nei giudizi di rinvio e addirittura altri 3 se il caso è particolarmente complesso, secondo una valutazione del giudice competente, è da considerare come una violazione del diritto alla durata ragionevole del processo. Un'automaticità che non convince, proprio alla luce deldelle scelte fin qui fatte dai giudici internazionali. La Corte europea, infatti, in numerose occasioni, ha precisato che non è possibile predeterminare la durata ragionevole del processo, rimandando a una valutazione caso per caso, che tenga conto della complessità del procedimento, del numero degli accusati, del comportamento delle parti e dell'autorità giudiziaria, dei valori in gioco, dei periodi di inattività. Questo anche per garantire che le esigenze di celerità dei processi e la buona amministrazione della giustizia procedano di pari passo.
Nel calcolo dei tempi, poi, non è considerata la fase dell'esecuzione della pronuncia che, invece, secondo la Corte europea, è parte integrante del processo, da ritenere chiuso solo se la sentenza è eseguita.
Ma non basta. Anche le novità introdotte per quantificare gli indennizzi rischiano di aprire un nuovo contenzioso a Strasburgo. Sotto due profili. Prima di tutto perché nel disegno di legge non si modifica l'arco temporale sul quale calcolare l'indennizzo: resta quindi intatto il criterio in base al quale l'entità della riparazione deve essere calcolata solo tenendo conto della parte eccedente il termine di durata ragionevole e non dall'inizio del processo. Con la conseguenza che, proprio perché questo parametro temporale differisce dalla prassi di Strasburgo, gli importi disposti dalle corti di appello italiane sono sensibilmente inferiori rispetto a quelli decisi dalla Corte europea. Una situazione che fa aumentare il numero di ricorsi a Strasburgo, con nuove condanne allo Stato.
Ma è soprattutto la riduzione di un quarto dell'indennizzo se le richieste del ricorrente sono rigettate nel procedimento di merito o se l'infondatezza è evidente, a non convincere. La Corte europea, infatti, ha sempre affermato che l'indennizzo per l'eccessiva durata dei processi prescinde dall'esito del procedimento, proprio perché i tempi processuali troppo lunghi sono in sé una violazione della Convenzione e una frustrazione supplementare per chi ricorre in giudizio, come chiarito nella sentenza Pizzati costata una condanna all'Italia divenuta definitiva con la pronuncia della Grande camera del 29 marzo 2006.
Nulla è stato poi predisposto nel disegno di legge per garantire una rapida esecuzione delle sentenze che liquidano gli indennizzi sulla base della legge Pinto, malgrado i ritardi nella fase di liquidazione degli importi abbiano condotto la Corte a condannare in più occasioni l'Italia (da ultimo, con la sentenza del 31 marzo 2009, nel caso Simaldone).

GLI IMPORTI

I criteri per il danno morale
- Importo base compreso tra 1.000 e 1.500 euro per anno di durata del procedimento e non per anno di ritardo
- Incremento dell'importo complessivo di 2.000 euro se la posta in gioco è considerevole, per esempio nelle cause concernenti il diritto del lavoro, lo stato e la capacità delle persone, le pensione, i procedimenti relativi alla salute e alle vita degli individui
- Riduzione dell'importo base in funzione del numero dei tribunali che hanno esaminato il caso, se l'aspetto patrimoniale è di scarsa importanza per il ricorrente e in funzione del livello di vita del Paese

16 Novembre 2009
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