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La ricetta di Stiglitz è netta, e non è lontana da quella del suo amico Paul Volcker: limitare molto per le banche commerciali, che hanno ampie garanzie pubbliche, il proprietary trading, le operazioni in proprio sui titoli, e proibire loro di trattare i titoli derivati. «Non c'è altra soluzione. Oggi la quasi totalità dei derivati fa capo a cinque grandi istituti, che sono gli stessi ampiamente garantiti dalla mano pubblica. Solo loro possono trattare titoli ad alto rischio perché solo loro hanno la totale garanzia del contribuente, se passa la linea del too big to fail prevista dalla bozza di nuove regole finanziarie presentata a giugno dal ministro del Tesoro Geithner».
Sulle nuova regole, più che necessarie e urgenti, Stiglitz è scettico. «I politici, ad ascoltarli, sembra dicano le cose giuste, ma uno deve leggere fra le righe. Il tranello in questa materia sta nei dettagli. Ora su passaggi cruciali per le nuove regole sui derivati i testi o sono ambigui, o demandano tutto a enti regolatori che in passato sono stati totalmente nelle mani dei regolati e che lo saranno ancora, senza vere e profonde riforme di questi enti. Si sta preparando una situazione di nuovo molto pericolosa».
«Nessuno si è mai chiesto, quando il peso della finanza cresceva e cresceva fino ad arrivare al 40% di tutti gli utili delle imprese americane, se le banche facevano il proprio lavoro, se erano la cinghia di trasmissione fra il capitale e l'economia reale, o se erano diventate autoreferenziali. In realtà - conclude Stiglitz -, a parte il venture capital che ha aiutato Google e altre imprese innovative, l'innovazione finanziaria è stata un disastro perché è diventata fine a se stessa. Abbiamo bisogno di nuove regole, sui derivati, sul predatory lending, su tutte le forme cioè di credito jugulare, dall'immobiliare ai prestiti di ogni genere alle carte di credito. Ma non sembra esserci per ora chi ce le può dare. Comanda ancora Wall Street».
La partita tra Joseph Stiglitz e Lawrence Summers continua.