«Se il prezzo del petrolio si stabilizzerà, credo che potremo superare la crisi finanziaria con costi limitati in termini di attività reali». Così il 2 settembre 2008 Olivier Blanchard - nominato da poco a capo del dipartimento ricerche del Fondo monetario internazionale - aveva descritto le prospettive future, rilevandosi ben presto in errore. Pochi economisti si erano resi conto all'epoca di quanto fragile fosse diventato il sistema finanziario. Il fallimento di Lehman Brothers, avvenuto poco più di due settimane dopo, e la crisi che ne derivò per Aig, il colosso assicurativo, rapidamente mutarono il compiacimento in panico. Il sistema finanziario precipitò in un abisso, trascinandosi dietro l'intera economia.
Quali insegnamenti dobbiamo trarre da quello shock, a un anno di distanza? Prima di tutto i veri assicuratori del sistema finanziario siamo noi. Secondo il Global financial stability report dell'Fmi dell'aprile 2009, complessivamente gli aiuti al sistema finanziario da parte dei governi e delle banche centrali di Stati Uniti, Eurozona e Regno Unito hanno raggiunto gli 8.955 miliardi di dollari (6.132 miliardi di euro), 1.950 dei quali in sostegni alla liquidità, 2.525 per l'acquisto di asset e 4.480 in garanzie. Queste somme sono precise, ma in modo fuorviante. L'amara verità è che a disposizione dei creditori del settore finanziario sono stati messi i redditi dei contribuenti. Quando nell'ottobre scorso i ministri delle Finanze e i governatori dei paesi più sviluppati del G-7 si incontrarono a Washington decisero di «passare a interventi risolutivi e utilizzare tutti gli strumenti disponibili per sostenere sistemicamente importanti istituti finanziari, scongiurandone il fallimento». Espedienti disperati per tempi disperati.
Poiché durante una crisi è altamente probabile che le grandi istituzioni finanziarie falliscano, questa decisione equivaleva in tutto e per tutto a una garanzia governativa indeterminata e senza limiti precisi. Ciò che ha reso la decisione pressoché insostenibile è che è stata, a mio parere, anche valida. Il rischio di un fallimento a catena del buono, del brutto e del cattivo tra le istituzioni finanziarie era evidente. Considerato quanto è accaduto dopo il fallimento di Lehman, soltanto gli sciocchi avrebbero fatto questo esperimento. Noi non siamo stati così sciocchi.
Di conseguenza, la lezione appresa dal fallimento di Lehman è stata l'esatto contrario di quello che molti avevano auspicato il giorno in cui è stato annunciato: mi riferisco al fatto che in una crisi ogni istituzione sistemicamente significativa deve essere salvata. Questo insegnamento pare confermato dal consenso odierno per il quale l'intervento di salvataggio in extremis, sostenuto da stimoli monetari e fiscali senza precedenti, ha funzionato. Il panico si è volatilizzato e l'economia mondiale sta per riprendersi.
In realtà si potrebbe arrivare a sostenere che il fallimento di Lehman è stato necessario. In caso contrario, non ci sarebbe stata chance alcuna di ottenere le risorse necessarie a risolvere la crisi, soprattutto dal Congresso americano. Questo è quanto ha sostenuto ieri Niall Ferguson, storico di Harvard, sul Financial Times. È molto probabile che abbia ragione. Ogni cosa, in definitiva, è andata per il meglio e nel migliore dei modi possibili. In prospettiva, è stato giusto lasciare fallire Lehman, perché aveva provocato questo inconcepibile disastro. Il suo crack ha poi costretto il settore pubblico a porre rimedio alla crisi e ha insegnato che un simile fallimento non deve essere mai più consentito.
Ma se queste sono le lezioni che riusciamo a trarre da quanto è accaduto, stiamo commettendo degli errori marchiani. Primo: non possiamo permettere che stia in piedi una dottrina secondo la quale istituzioni sistemicamente importanti sono troppo grandi o troppo interconnesse per essere lasciate fallire nel bel mezzo di una crisi. Nessuna normale azienda che si prefigga di ottenere degli utili può operare senza una plausibile minaccia di bancarotta. Pertanto, il presidente Barack Obama ha perfettamente ragione quando caldeggia la «più ambiziosa riorganizzazione del sistema finanziario dai tempi della Grande Depressione». L'ultimo comunicato dei ministri delle Finanze e dei governatori del G-20 delinea l'attuale agenda per la riforma del settore. Per il momento è del tutto ragionevole. La questione, tuttavia resta la medesima: si farà abbastanza per eliminare gli incentivi oggi esistenti per raggirare il sistema? Deve essere possibile liquidare le istituzioni senza i danni ai quali abbiamo assistito dopo il crollo Lehman.
Il secondo grave errore che potremmo potenzialmente commettere sarebbe far ritorno alla vecchia dottrina secondo la quale è molto meglio fare un bel repulisti dopo una crisi che intraprendere iniziative preventive. Tuttavia, quanto più efficace appare l'attuale operazione di pulizia, tanto più probabile è che le banche centrali ne traggano proprio quell'insegnamento.
Il terzo errore è ancora più evidente: presumere che siamo già sulla buona strada verso una sana ripresa. È vero, il panico finanziario si è dissolto, ma i rischi per l'economia non sono alle spalle. La ripresa è stata sostenuta dal salvataggio in extremis del sistema finanziario e dalle straordinarie politiche fiscali e monetarie varate, in particolare nei paesi con il più alto leverage nel settore privato. Per le loro buone ragioni, i settori privati di tali paesi hanno maggiori probabilità di salvare le cose e di onorare i loro debiti negli anni a venire. Ciò a sua volta richiede adesso un forte cambiamento di equilibrio tra l'offerta e la domanda nelle economie dipendenti dalle esportazioni. Olivier Blanchard ha delineato l'agenda macroeconomica post-crisi in un recente articolo ("Sustaining a Global Recovery", Finance & Development, www.imf.org). Secondo l'economista, dobbiamo saper gestire complessi «interventi di ribilanciamento», prima di tutto «riequilibrando dalla spesa pubblica a quella privata»; in secondo luogo «ribilanciando la domanda aggregata nei vari paesi». Altrimenti, la ripresa resterà nelle sabbie mobili.
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