Un astronauta che avesse orbitato negli ultimi dodici mesi intorno al globo senza preoccuparsi troppo, come è naturale, dei mercati finanziari, difficilmente desumerebbe, tornando oggi sulla Terra, il terremoto che li ha investiti dal collasso della Lehman in poi.
Le quotazioni in Borsa delle grandi banche internazionali sono al di sotto, ma non troppo, dei livelli del 12 settembre 2008, prima del fatidico fine settimana in cui Lehman fallì, Merrill Lynch venne ingoiata da Bank of America, Aig fu salvata per il rotto della cuffia, Goldman Sachs e Morgan Stanley si rifugiarono sotto l'ala della Federal Reserve. La flessione dei titoli bancari è in linea con il mercato in generale, con un paio d'eccezioni negative, la stessa Bank of America e Citigroup. Altre due, Goldman e J.P. Morgan, superano le quotazioni di allora. L'indice dei Cds delle 15 più importanti istituzioni globali, che misura il rischio di default, è lontano dai livelli pre-crisi, ma è migliorato di un 20% circa in 12 mesi. Lo stato di salute delle grandi banche descritto dai mercati non sarà brillante, ma non è neppure disastroso.
Perché allora il richiamo da parte del G-20 e del Comitato di Basilea a un'urgente e massiccia ricapitalizzazione delle banche e una revisione, quantitativa e qualitativa, dei requisiti patrimoniali? Perché sotto l'ottimismo di mercato, legato probabilmente alla ritrovata capacità di fare profitti esibita nei primi due trimestri dell'anno, c'è una realtà molto più precaria e altamente vulnerabile.
L'Fmi chiede l'abbattimento dell'eccessiva leva finanziaria dei grandi istituti, un'operazione che, se dovesse riportare il rapporto fra l'attivo e il capitale core Tier 1 ai livelli di prima dell'escalation della finanza, diciamo a fine anni 90, richiederebbe nuovi capitali per 1.700 miliardi di dollari. Pur senza voler fare una marcia indietro così lunga, da dove arriveranno capitali così ingenti, anche se le banche si sono di recente riaffacciate sui mercati?
Anche prima degli annunci del G-20 e del Comitato di Basilea, le stime sulla redditività delle banche indicano una severa compressione solo per effetto delle misure già annunciate per riportare l'attività delle banche nell'alveo della normalità. Gli analisti di J.P. Morgan stimano che misure come la concentrazione su mercati regolamentati dei prodotti derivati o gli aumenti del capitale richiesto per il proprietary trading spingono il roe delle attività di investment banking dei grandi istituti al di sotto o appena sopra l'11%, un livello insufficiente. La via d'uscita passa attraverso un ridimensionamento dei costi, compresi quelle delle retribuzioni, oltre che dalla riduzione dell'attivo. Altre questioni, come quella della ripulitura dei bilanci dalle attività tossiche, restano insolute e prima o poi riemergeranno nei numeri.
La sensazione dei banchieri in attesa di bonus, e degli investitori che puntano sul settore bancario, che siamo tornati al "business as usual" potrebbe rivelarsi effimera.