Che la carenza d'innovazione sia uno dei problemi principali dell'economia italiana è ormai un dato di fatto che si può considerare un postulato. Il dibattito è peraltro aperto sulle ragioni di questo deficit ormai strutturale e sulla cronica limitatezza degli investimenti nelle attività di ricerca e sviluppo. Se ci si fermasse alla cassetta degli attrezzi fornita dalle teorie classiche dell'economia, si dovrebbe puntare il dito sulla carenza di concorrenza del sistema economico perché, da Adam Smith a Joseph Schumpeter, l'innovazione è considerata un frutto della capacità e della motivazione degli imprenditori, sotto la spinta del mercato, di sfruttare in maniera nuova e creativa le risorse umane e materiali disponibili.
Schumpeter tuttavia, al di là dello slogan della distruzione creativa, ha fatto compiere un passo avanti alla teoria mettendo in evidenza come l'innovazione possa essere compresa, giudicata e soprattutto valutata solo ex post, cioè considerando i risultati conseguiti, e non ex ante, perché comunque gli imprenditori non possono che avere, ma non certo per colpa loro, una razionalità limitata nelle possibilità di prevedere le reali ricadute dei processi innovativi.
Nel caso italiano ci sono due elementi che rendono particolarmente importante una corretta strategia di valutazione: il forte peso che ha assunto la dimensione pubblica da una parte e la crescente incidenza del settore dei servizi dall'altra. È in questa prospettiva che Fabrizio Tuzi, direttore generale del Cnr, lancia una proposta: rendere più efficienti gli investimenti in R&S attraverso una coerente ed efficace politica di valutazione, proprio quella politica che soprattutto nel settore pubblico è praticamente assente. E non solo per mancanza di volontà, ma soprattutto per la carenza di regole. «L'attuale assetto normativo - scrive Tuzi nel suo libro L'innovazione dimezzata - non riconosce l'autonomia necessaria a un sistema che dovrebbe essere il motore dello sviluppo di una nazione». E si citano i vincoli alle assunzioni, i passaggi autorizzativi a singhiozzo, la scarsa flessibilità del lavoro di ricerca e, addirittura, il peso d'imposte come l'Irap che gravano sui costi del personale degli enti pubblici di ricerca.
Non sorprende allora che si riferiscano al settore pubblico tre dei quattro indicatori in cui l'Italia è sotto la media Ocse sull'innovazione: la qualità delle istituzioni per la ricerca scientifica, le collaborazioni università-industria, gli acquisti statali di prodotti a tecnologia avanzata. A questi si aggiunge la spesa privata in R&S, una spesa tuttavia verosimilmente sottostimata, data la dimensione medio-piccola delle imprese italiane che rende difficile definire in modo chiaro la dimensione quantitativa degli investimenti in innovazione.
Se questo è vero, ne risulta che il rilancio dell'innovazione si gioca non solo sul fronte delle risorse a disposizione o sul grado di competizione, ma anche sulla possibilità di rendere gli interventi più efficienti: non solo spendere di più, ma soprattutto spendere meglio.