Elemento cardine di ogni sistema democratico è il principio dell'uguaglianza: da intendere, ovviamente, non come presupposto, bensì come scopo da perseguire. Come ha scritto Norberto Bobbio, non è che gli uomini siano uguali. L'uguaglianza è un punto d'arrivo: è un dovere da compiere.
Ma a questo punto c'è da chiedersi se il compito di perseguire l'uguaglianza – che rappresenta, come appena detto, il fine ultimo e la stessa ragion d'essere della democrazia – spetti esclusivamente alla sfera politica o anche a quella economica. E, conseguentemente, se le regole riguardanti l'attività economica debbano servire solo ad assicurare la libertà, la concorrenza e l'efficienza, o anche a soddisfare le ragioni dell'equità e della giustizia.
È intorno a questo cruciale quesito che si impone un profondo ripensamento del sistema economico di mercato. La libertà di iniziativa economica, come il diritto di proprietà, appartiene alla sfera dei diritti inviolabili della persona umana. Ma il primato della libertà sull'uguaglianza non può essere assoluto, neppure nell'ambito economico. Si profila altrimenti, come inevitabile, quella deriva utilitaristica, orientata alla ricerca esclusiva del profitto e dell'arricchimento individuale o aziendale, che nessun intervento successivo può essere in grado di riequilibrare.
Il grande problema che le regole dell'economia devono risolvere è dunque quello di contemperare la tutela della libertà con quella dell'uguaglianza. Si tratta di una condizione imprescindibile perché si instauri davvero una "democrazia economica". Nuove regole sono necessarie. Ma, a parte la considerazione che nell'economia globalizzata nuove regole esigono assolutamente nuovi modelli di "governance globale", la correzione dei difetti e delle distorsioni del capitalismo, evidenziati dalla crisi che stiamo vivendo, non può esaurirsi in una questione di regole, perché queste ultime rimandano necessariamente a una nuova antropologia. La grande sfida da affrontare è quella di superare la supposta neutralità dell'economia.

Alla base del sistema capitalistico cha ha dominato la scena negli ultimi decenni si trova l'assunto teorico che ogni uomo, quando opera come homo oeconomicus, è legittimato, nello spazio di libertà riconosciutogli dalle norme giuridiche, a perseguire obiettivi egoistici (ossia il massimo guadagno e profitto); mentre deve perseguire l'interesse generale solo quando agisce come cittadino e concorre, come tale, alla formazione di quelle norme. Questa tesi ammette come normale una dicotomia tra homo oeconomicus e homo politicus che risulta in evidente contraddizione con l'inscindibilità della persona umana e la necessaria coerenza e continuità della sua ispirazione morale, che non può venir meno nel momento dell'agire economico. L'integralità dell'uomo rappresenta il nucleo primario su cui deve fondarsi una nuova concezione del rapporto tra economia e società.

La necessaria coerenza di ispirazione morale nella condotta degli uomini è l'elemento che induce a ricercare un aspetto di continuità, invece della discontinuità e della frattura che viene solitamente ravvisata, tra comportamenti che giuridicamente sono definiti come leciti (diritti) e altri che sono definiti come doverosi (obblighi).

Del resto, va considerato che l'adozione di nuove regole, mentre da un lato può risultare insufficiente, d'altro lato ha sempre come costo la riduzione degli spazi di libertà. Parallelamente all'adozione di nuove regole, occorre dunque che l'operatore avverta, nell'esercizio della libertà e dei diritti che gli competono, la propria responsabilità di "cittadino", cioè di membro e protagonista della comunità democratica. Sotto questo profilo si manifesta come decisivo il ruolo rappresentato dal senso di "responsabilità sociale" dell'imprenditore. La realizzazione dell'interesse particolare (personale o aziendale) va coniugata con quella dell'interesse generale. In altre parole, l'interesse generale – che può essere definito "bene comune" – dev'essere sempre l'orizzonte in cui si collocano le scelte che gli uomini d'impresa compiono anche nella sfera di libertà individuale che è loro riconosciuta.
Qui entra in gioco l'ethos religioso. Il linguaggio religioso ha infatti la capacità di custodire ed esprimere delle "ragioni" che il discorso pubblico non può ignorare. In uno Stato liberal-democratico è giusto "che i cittadini secolarizzati partecipino agli sforzi per tradurre rilevanti contributi dal linguaggio religioso in un linguaggio pubblicamente accessibile".

Ed è proprio a questo proposito, cioè nell'ambito di una riflessione su quelle che sono le radici culturali e religiose del sistema liberale e capitalistico, che si pone, a mio avviso, un ultimo interrogativo. Il capitalismo, com'è ampiamente noto, ha trovato il suo humus nella Riforma protestante, nell'idea della ricchezza come grazia, ossia nell'idea che i doni e i talenti naturali riconosciuti agli uomini e la loro fortuna, il loro successo temporale, siano un segno della benedizione divina, un premio.

Ma è forse giunto il momento di chiedersi se sia giusto che il sistema economico di mercato continui a ispirarsi prevalentemente a questo ethos di stampo calvinista e weberiano.
Certamente l'ipotesi di un'economia affrancata dall'egoismo risulterebbe astratta e utopica, perché la motivazione dell'agire economico è sempre data dall'interesse individuale al miglioramento delle proprie condizioni di vita, cioè al proprio arricchimento. La storia dimostra che i sistemi economici che mortificano l'incentivazione personale sono destinati a fallire. E d'altronde nessuno può negare che si tratti di tendenze e aspirazioni individuali che sono scritte nel Dna umano. Come nessuno può dubitare che la meritocrazia sia un principio da valorizzare in ogni organizzazione sociale e che la concorrenza sia una procedura utile e insostituibile al fine di selezionare le persone e le produzioni migliori.

È proprio su questi punti, tuttavia, che mi pare necessario aprire una nuova e spregiudicata riflessione. Siamo certi che una concezione etica dell'economia che assolutizzi il primato del merito ed esalti la competizione al fine di selezionare i più bravi e i più forti sia aderente ai principi evangelici? Non è forse vero che un sistema improntato a questa logica comporta ineluttabilmente una radicalizzazione, anziché una mitigazione, delle disuguaglianze economiche e sociali? E non è altresì vero che alcuni degli aspetti degenerativi del sistema sono derivati dalla condotta di manager di primissimo piano, disposti anche a forzare i risultati aziendali al fine di percepire compensi e premi smisurati?

Ripeto: il merito rappresenta certamente un fattore imprescindibile di promozione della comunità civile: un valore da contrapporre al disvalore dell'assistenzialismo. Purché il sistema non sia costruito attorno all'idea che i più bravi, i più forti, i più capaci meritino di essere premiati illimitatamente. È altrettanto certo che la concorrenza e la ricerca di efficienza sono regole inderogabili da seguire per la crescita economica e civile della società. Purché non diventino il metro adottato per valutare ogni attività umana.

A questo riguardo sarebbe opportuna una riflessione preliminare sul significato e l'applicazione che l'idea di merito e di concorrenza ha trovato nell'ambito economico. È il caso infatti di chiedersi se il merito nella conduzione delle aziende debba continuare ad essere misurato secondo i criteri correnti, teorizzati nelle scuole di formazione manageriale e ispirati al postulato (di derivazione smithiana) che la soddisfazione di utilità particolari (come le forti incentivazioni personali per i manager e il massimo profitto e il continuo incremento di valore per gli azionisti) si traduca automaticamente in una crescita del benessere dell'intera collettività. Nella valutazione della professionalità dei manager e dell'" eccellenza" delle aziende sembra evidente che dovrebbe trovare maggior peso la capacità di "farsi carico" – secondo un'esigenza esplicitamente richiamata anche dall'ultima enciclica – degli interessi "di tutte le categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell'impresa" e, in ultima istanza, dell'intera "comunità di riferimento". E così pure, per quanto riguarda la concorrenza, non si può fare a meno di osservare come la concezione genuina di un pluralismo di operatori – utile, anzi indispensabile, al fine di migliorare la qualità dei servizi e dei prodotti offerti al mercato – sia oggi sopraffatta dalla prassi di una competizione volta all'eliminazione dei concorrenti, a malapena controllata dalla legge.

Il problema è dunque quello dei correttivi da introdurre, per evitare che il primato del merito e il principio del confronto competitivo finiscano per legittimare una radicalizzazione delle disuguaglianze.

Il diritto di far valere i propri talenti deve accompagnarsi anche in ambito economico a inderogabili doveri di solidarietà. Ciò comporta il rifiuto di una logica puramente funzionale che porta a considerare l'impresa come finalizzata a creare profitti nell'interesse esclusivo degli azionisti e dei manager, senza farsi carico degli interessi generali della comunità in cui opera. La verità è che l'obiettivo della crescita della ricchezza e del benessere non può essere disgiunto da quello della riduzione delle disuguaglianze. L'attuazione di questo principio, che deve ispirare sia la definizione delle regole sia i comportamenti dei singoli operatori, rappresenta la grande sfida che attende il sistema economico e sociale del prossimo futuro.
Giovanni Bazoli

Il testo del presidente di Banca-Intesa è tratto dal saggio Chiesa e capitalismo, edito da Morcelliana, in uscita nei prossimi giorni