I dieci anni dalla morte di Bettino Craxi sono serviti - e non è poco - a collocare il leader socialista nella storia politica della Prima Repubblica. Se ne sentiva il bisogno, tant'è che nel torrente di parole spese in occasione dell'anniversario molte sono apparse opportune e qualcuna necessaria. Del resto, chi potrebbe negare che la stagione craxiana sia essenziale per comporre il mosaico storico del dopoguerra? Non si tratta di «riabilitare» e tanto meno di santificare, ma di valutare senza pregiudizi un protagonista della sua epoca: non l'unico, certo, ma uno dei principali.
La rimozione non ha senso, visto che nella storia nulla può essere messo tra parentesi. Renzo De Felice lo ha dimostrato con lucida saggezza, affrontando a suo tempo altre figure controverse e altri drammi del Novecento italiano. Anche allora si trattava di rompere gli schemi e le rigidità delle passioni politiche al fine di dare un senso compiuto agli eventi. E se in quel caso la frattura nazionale si era consumata sullo sfondo di un conflitto armato distruttivo, oggi, parlando di Craxi, non si può non evocare Tangentopoli.
Ossia una lacerazione netta e irrisolta, da cui è derivato il collasso di una classe dirigente e l'avvio della lunga era berlusconiana, con un il paese diviso ora più o meno come sedici anni fa. Liquidare la questione ricordando che Craxi era un «latitante» e chiudendo lì il discorso è del tutto insoddisfacente. Ha ragione Francesco Cossiga, quando ricorda che sarebbe assurdo giudicare Giovanni Giolitti limitandosi a citare lo scandalo della Banca Romana. Craxi non era Giolitti, ma il paradosso regge. E in fondo la valutazione più esatta è forse quella di Ciriaco De Mita, suo avversario di un tempo, che ha riconosciuto la verità: «Bettino aveva un disegno».
Si potrebbe aggiungere che tale disegno nasceva dal fatto che Craxi era figlio di un'epoca in cui esistevano ancora le culture politiche e in cui il passato aveva un peso sulle azioni degli uomini. L'idea craxiana del socialismo riformista e modernizzatore - di cui ha parlato su queste colonne Andrea Romano - deriva da una conoscenza attenta della storia d'Italia, all'interno di una visione socialdemocratica in cui Nenni e Saragat si ricongiungono a Turati, ma con in più una notevole dose di spregiudicatezza «decisionista».
Qualcuno ha scritto in questi giorni che a Craxi sono stati fatti pagare i suoi meriti molto più che i suoi demeriti. È probabile che sia così. Egli è stato in primo luogo un uomo della sinistra italiana che ha consumato buona parte della sua vita politica nel tentativo di saldare i conti con il partito comunista: ovvero, per usare un linguaggio meno brusco, di riequilibrare i rapporti sottraendo il Psi all'egemonia delle Botteghe Oscure. Però Craxi non ha avuto la forza, l'abilità o la fortuna di Mitterrand e non è riuscito nell'impresa. Anzi, sotto le macerie del muro di Berlino - per quanto la cosa possa sembrare singolare - è rimasto lui, mentre il Pci è stato lesto a cambiare ragione sociale e ad avviarsi lungo un altro sentiero, peraltro non troppo fortunato.
Ciò non toglie che Craxi, nel confronto a sinistra, abbia colto un'evidente vittoria culturale che oggi - e solo oggi - viene ampiamente ammessa (Fassino e altri). Purtroppo, a questa sua funzione di modernizzatore della sinistra non ha corrisposto un'analoga capacità di rinnovare lo Stato. La spinta alla «grande riforma» che aveva caratterizzato il primo Craxi si spense via via in nome di un principio di «governabilità» in sé positivo, ma che finì per imprigionare il leader socialista in una «routine» stagnante. E all'interno della stagnazione si perdeva la trasparenza, mentre emergevano i lati oscuri del sistema.
Craxi aveva la tempra politica per essere un riformatore, ma non ebbe il coraggio, il vigore e soprattutto i numeri per esserlo davvero, se non a tratti. Tentò di piegare i grandi partiti, irritando sia la Dc sia soprattutto il Pci, ma non riuscì a metterli con le spalle al muro. Il che gli costò caro. Sviluppò una politica estera in parte eccellente: il «sì» agli euromissili, il sostegno ai dissidenti dell'Europa dell'Est e ai movimenti antifascisti latino-americani; e in parte velleitaria: il legame con l'Olp che portò al pasticcio dell'Achille Lauro, la sfida all'America, il paragone in Parlamento tra Arafat e Mazzini, una romantica vocazione mediorientale e africana.
E' vero che i finanziamenti illeciti ai partiti erano una pratica diffusa e del tutto normale in quegli anni. Ed è altrettanto vero che Craxi si levò alla Camera, a metà del '92, per parlare chiaro e fotografare la situazione. Con il risultato di accentuare il proprio isolamento e accelerare una caduta rovinosa, tipica del capro espiatorio. Tuttavia per tutti gli anni Ottanta il Psi aveva accettato quel sistema e con cinismo ne aveva persino esasperato le peggiori caratteristiche. Collocare Craxi nella storia significa anche riconoscere questa realtà. Se avesse concentrato i suoi sforzi sulla «grande riforma», forse il leader socialista avrebbe aperto la porta a una Seconda Repubblica meno confusa e approssimativa dell'attuale. E magari, rendendo più moderno ed efficiente il sistema, lo avrebbe di fatto moralizzato. Ma non è avvenuto. La stagnazione ha ucciso la Prima Repubblica e ci ha condannati a un'infinita, litigiosa transizione.
La dignità dolorosa degli anni di Hammamet, testimoniati in questi giorni dalla bella intervista di Luca Iosi, ispirano compassione umana e dovrebbero spingere ad approfondire, sul piano politico e storico, il significato del craxismo. Ma questo vuol dire fare luce senza ipocrisie su tutti i suoi aspetti. Sulle intuizioni, sugli errori, sui fallimenti.